Aspetta e spera
4 settembre 2011
Steve Rodney McQueen, classe 1969, videoartista inglese di fama mondiale, ha esordito nel 2008 con Hunger, tremendamente dimenticato dalla distribuzione italiana (nonostante i tanti applausi e la quintalata di premi raccolti nel mondo). Sceglie Venezia per presentare il suo secondo film, intitolato Shame e interpretato, come Hunger, da Michael Fassbender che, come in Hunger, sprofonda in un tunnel senza uscita.
Shame racconta la vicenda di Brandon, giovane newyorkese benestante che non riesce (vuole) ad avere relazioni sentimentali, non riesce a controllare il suo impulso sessuale che lo conduce a mantenere un atteggiamento compulsivo, distruttivo, a senso unico. Il precario e apparente equilibrio che mantiene con gli altri è scombussolato dall’arrivo della sorella (Carey Mulligan) cantante, pure lei non tutta a posto.
È un film tosto, da cui difficilmente non si viene rapiti (in un senso o nell’altro), che McQueen ha catalogato come film politico perché, fin da subito, mette in scena il corpo come prigione della libertà. E visto che anche Hunger affrontava, in modi diversi, la stessa tematica, mi pare di essere di fronte a un autore potente (e la corsa “liberatoria” sembra essere il ponte ideale e ideologico con gli arrabbiati del Free Cinema degli anni Sessanta), in grado di scalfire lo sguardo dello spettatore.
Anche se Shame mi è piaciuto meno di Hunger, anche se Shame mi è parso fin troppo programmatico, esplicito (non per le scene di sesso, piuttosto nel motivare lo stato d’animo del protagonista e le motivazioni che lo spingono ad agire in un certo modo contro se stesso e contro la sorella: “non siamo cattivi, veniamo da un brutto posto” dice lei verso la fine) e desolante, è un film sulla solitudine dell’uomo, pieno di umanità smarrita.
Emanuele Crialese, classe 1965, nato a Roma ma cinematograficamente siciliano, torna a Venezia con Nuovomondo, magico, del 2007. Alcune idee belle come il contrasto tra “legge dello stato” e “legge del mare”, o come l’analogia uomo-animale, alcuni personaggi ben riusciti e alla base un’idea interessante e inappuntabile: accogliere chi è nel bisogno e fare i conti con la realtà. Fin qui tutto bene, anche perché le inquadrature dell’Isola innominata (i riferimenti sono chiaramente a Lampedusa, ma il film è stato girato a Linosa) sono belle e in alcuni momenti i film funziona.
Poi però il campo si restringe invece di espandersi, e il film rallenta e inciampa indugiando un po’ troppo su un pietismo che sfiora il patetico piuttosto che il poetico, il riduttivo al complesso. Nel finale si ripiglia ma l’impressione è che sia troppo tardi. Peccato, nell’ultima immagine (dall’alto, il mare, una barca, il blu scuro) si raccoglie una conclusione terribile: nessuna certezza (ma questo già lo sapevamo).
Crialese, uno dei pochi nuovi autori italiani, con Nuovomondo era riuscito a rinnovarsi alla grande dopo l’ottimo Respiro (recuperateli, nel caso). Con Terraferma mi sembra che l’autore abbia scelto un sentiero più tranquillo, più facile, per proseguire nel suo personale percorso.
Todd Solondz, classe 1959, dal New Jersey: Dark Horse è il suo settimo film. Racconta la vita fallimentare di un perdente d.o.c., Abe, fannullone e mammone. Cerca il riscatto e l’amore, troverà frustrazione e guai. Non c’è indagine sociale (stiamo parlando di Solondz!) ma c’è amarezza ovunque e si ride facilmente delle tragedie della vita. Troppo facilmente, a tal punto che alla fine ci si chiede perché tanto accanimento. E sorge una domanda: l’autore Solondz cosa ha aggiunto al suo cinema con questo film?
Per ora, il film peggiore visto alla Mostra è The Invader, di N. Provost, in Orizzonti. C’è anche Stefania Rocca nuda. Ah, sì, chissenefrega. Ma chi gliel’ha fatto fare?
Al giro di boa sono soddisfatto a metà. Aspetto e spero delle sorprese, che finora non ci sono state.
A cura di Matteo Mazza
festival ::