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Gente di mare

Gente di mare

Il mare, quello non addomesticato dal turismo, fa parte del DNA di Emanuele Crialese. Lo ribadisce la prima, lunga sequenza di Terraferma, che inquadra le reti dei pescatori nelle profondità marine. Approdato al Lido di Venezia, il film racconta, come sempre in modo sincero, una storia fresca, attuale e italianissima. La pellicola si inserisce logicamente nel percorso di “ritorno alle origini” del regista siciliano, che, a partire da Respiro (2002), traccia l’evoluzione di un microcosmo insulare del Sud, ritraendolo nei suoi pro e nei suoi contro. Dalla distanza che separa il mondo industrializzato dal mondo statico, ma emotiva-mente instabile di Respiro, osservato con uno sguardo “verista” nel senso verghiano del termine, Crialese passa attraverso l’apertura al Nuovomondo (2006) per toccare, finalmente, la terraferma. “Terraferma” come presa di coscienza della necessità di aprirsi al cambiamento, di trasgredire le tradizioni e le consuetudini insulari improvvisandosi timidi imprenditori di se stessi. “Terraferma” anche come ricerca di un’identità perduta, posta sul confine tra la generazione dei padri e quella dei figli. In questa “epifania”, a cui giunge non senza dolore Giulietta (Donatella Finocchiaro), s’insinua, come sempre nel cinema di Crialese, l’apparentemente scomodo straniero, qui rappresentato dalla figura del profugo africa-no. Una scelta quanto mai attuale, essendo l’immigrazione clandestina fonte di accesi dibattiti e di conseguenza oggetto d’interesse di molto cinema (vedi Il villaggio di cartone di Ermanno Olmi, presentato fuori concorso a Venezia 68, ma anche il tenero Io sono Li, di Andrea Segre, nella sezione Giornate degli autori).

In effetti, nella piccola comunità di Terraferma, c’è chi ha già capito come gira il mondo e quali sino le regole del gioco. Anche in termini d’immigrazione. È il caso di Nino (Beppe Fiorello), il cognato di Giulietta, che ha trovato il modo di fare facili quattrini con il turismo. Le sue idee progressiste e l’attenzione alla legalità nell’esercizio della propria attività non trovano seguito, com’è ovvio, tra chi tiene saldo il legame con le proprie radici, perché ritenute quasi “immorali”, contro natura. Succede così che soccorrere i clandestini diventa reato per la legge italiana, ma è visto come comportamento spontaneo da chi, come nonno Ernesto, obbedisce alle leggi del mare e dell’uomo. Proprio questa è la scintilla che manda in frantumi il fragile equilibrio che esiste tra giusto e sbagliato, destabilizzando d’un colpo le proprie certezze. È quanto accade al più giovane della famiglia, Filippo (Filippo Pucillo), che sperimenterà sulla propria pelle quanto sia profonda e insanabile la contraddizione che esiste tra l’obbedienza alla legge della terraferma e al proprio senso innato di dovere verso il prossimo.

La progressiva e simbolica tensione verso la terraferma, da parte di isolani e immigrati, si rispecchia stilisticamente: il sorriso prevale sul dramma di Respiro e il lungometraggio risulta più accessibile allo spettatore medio, nonostante la scelta di usare spesso il dialetto siciliano, avvicinandosi – specialmente con la scena della traversata in barca al ritmo di Maracaibo – al cinema italiano più “vacanziero”. Il ricorso a immagini simboliche abbonda, ma fluisce inavvertito per tutto il lungometraggio: dalle reti per la pesca, che evocano la costrizione e l’ancoraggio a tradizioni obsolete, fino allo strappo materiale e metaforico da parte del giovane Filippo. Crialese ci regala un nuovo affresco della realtà italiana più remota, fondendo insieme argomenti di attualità a una poetica dell’insularità fisica e psicologica della gente dei mari del Sud.

Curiosità
Timnit T. è una vera sopravvissuta di un viaggio della speranza e ha convissuto con la troupe sull’isola di Linosa (la stessa location di Respiro) durante le riprese, così da creare un’emotività reale dentro e fuori dal set

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