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Chernobyl Diaries – La mutazione: cinema radioattivo

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Oren Peli ha avuto l’intuizione di virare in modo decisamente originale il tema dei found footage, idea che ha solleticato il palato di un certo Steven Spielberg che ha contribuito a trasformare un filmetto da 15 mila dollari (Paranormal Activity) in un successo planetario dal valore economico pari al prodotto interno lordo di un piccolo stato africano. Da qui a trasformare il nome di Oren Peli in una garanzia di successi commerciali il passo è breve. Prendete una qualsiasi idea che possa essere raccontata dal punto di vista soggettivo di uno dei protagonisti, mettete il suo nome sulla locandina a caratteri cubitali e forse avrete replicato la formula di un qualunque “Luc Besson presenta…”.

Così come per i sequel di Paranormal Activity o la serie The River, anche per Chernobyl Diaries – La mutazione il meccanismo narrativo è semplice: il solito gruppo di giovani turisti, un luogo abbandonato (in questo caso Kiev) e via con il tour da amanti del brivido. Non finiranno in pasto a sadici deliranti come in Hostel di Ely Roth, ma tra i ruderi della città di Pripjat, abbandonata in tutta fretta dai sui abitanti dopo l’esplosione del reattore della centrale atomica di Chernobyl, che nel 1986 aprì uno squarcio nelle certezze nucleari del mondo intero. Accompagnati da un veterano dell’esercito sovietico, i ragazzi (a loro spese) scopriranno che l’ex fabbrica in realtà cela ancora molti inquietanti segreti, tenuti nascosti dall’esercito russo. Qualcosa di malefico si nasconde tra gli edifici abbandonati di Pripjat e non sarà certo amichevole nei confronti degli intrusi.

Sebbene la scelta stilistica di Bradley Parker (al suo esordio alla regia, con tanto di bollino “Oren Peli presenta…”) opti per un’insistente estetica documentaristica, Chernobyl Diaries – La mutazione viene raccontato da un punto di vista esterno a quello dei protagonisti, in un pastiche di generi che sceglie di mantenere una certa distanza dalla realtà. Sarebbe forse risultato un po’ troppo azzardato proporre un falso reportage dai risvolti horror ambientato in un luogo testimone di una tragedia che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone anche nel lungo periodo, per via delle ricadute delle radiazioni sprigionate dalla vaporizzazione del reattore. Difficile però capire se alla base di questa scelta ci sia l’etica o l’estetica.

Ne risulta un mediocre film horror, poco più di un saldo estivo per brividi all’aria condizionata della sala cinematografica con una sceneggiatura prevedibile, tanto da lasciar intuire fin dall’inizio (vediamo se indovinerete anche voi) chi sarà la last girl standing nonché l’ordine preciso delle “sparizioni”. Ma quando lo script è firmato da Carey e Shane Van Dyke, noti per essere nipoti dell’attore Dick Van Dyke e autori di s-cult come Transmorphers e Titanic 2, forse era lecito aspettarsi anche di peggio…

Curiosità: sono state molte le polemiche suscitate in America dal film a causa dell’uso di una immane tragedia come quella di Chernobyl in un’opera spettacolare e di intrattenimento.

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