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Cosa rimane dopo Venezia 68

Alexandr Sokurv con il suo Leone d'OroNon resta che guardare tutto partendo dalla fine. Piuttosto bizzarra ed emozionante: ho seguito la cerimonia di premiazione nella sala stampa del Casinò gremita di giornalisti, in diretta su RaiMovie. La notte precedente ho passato mezz’ora a pensare come vestirmi per la cerimonia, la cena e il dopocena, visto che inaspettatamente era arrivato un invito. Goduriosa, inquietante, imperdibile esperienza. Ma alcuni tempi non coincidevano, come alcuni inviti non sono destinati a durare nel tempo. E così mi sono ritrovata in un luogo che ormai mi è parecchio famigliare, la press room. Meglio, il pavimento della press room. Con un pc agli sgoccioli di batteria che mi ha costretto a cercare una presa, dietro agli schermi. In definitiva sono passata da una red carpet situation a una backstage situation. Piuttosto bizzarra ed emozionante però.

I giornalisti sedevano sui divanetti come vasi di fiori incastrati su un balconcino: belli in fin dei conti, ma un po’ sgualciti. L’audio della diretta, per quello che captavo, soffriva di terribili momenti di impasse, vuoti di silenzio imbarazzati riempiti dal continuo brusio di cavi spostati, tasti schiacciati, carta sfogliata.

La maggior parte degli annunci dei vincitori ha suscitato reazioni diverse: l’Osella per la migliore sceneggiatura a Yorgos Lanthimos e Efthimis Filippou per Alpis, metà e metà. Forse più fischi che applausi: è un film che in effetti ha molto diviso, forse insieme a Sokurov è stata l’anomalia cinematografica più radicale vista alla Mostra.

Il Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore o attrice emergente, dato congiuntamente a Shôta Sometani e Fumi Nikaidô per Himizu è piaciuto ai giornalisti, personalmente l’ho trovato giustissimo. I due protagonisti del film di Sion Sono si portano addosso una storia imperfetta, a tratti sfilacciata, ma necessaria, interpretandola con un’urgenza che rende ancora più vibrante il bisogno di speranza di un popolo che sta vivendo nella tragedia.

Il Premio Speciale della Giuria consegnato a Terraferma ha invece creato un gorgoglio sordo che si è alzato rimanendo sospeso per qualche secondo nell’aria. Un rumore cupo, mortifero, che stava a mille metri di profondità rispetto al suono squillante e tutto sommato vivace di alcuni “Buuu” lanciati come simbolici sassi. Una scelta misteriosa, in cui pochi hanno creduto e che ha sollevato dubbi. Nel complesso Terraferma ha delle composizioni di immagini molto suggestive, profonde, come all’inizio le reti gettate ritmicamente nel mare, o il volto della giovane madre etiope che riempie lo schermo su uno sfondo/mondo nero, il mappamondo di plastica illuminato che volteggia sospeso nel vuoto… Ma la storia lentamente perde il suo centro – racchiuso tutto nell’assemblea dei vecchi pescatori che seguono una “legge del mare” dalle basilari regole civili e morali – per diventare una storia patetica, che sconfina nel pietismo basando il moto dell’azione sul senso di colpa. Per un film che si propone di raccontare la disumanità con cui viene gestita l’immigrazione clandestina è stata scelta, alla fine, la via di una facile empatia.

Tutt’altra storia per Black Block, il documentario di Carlo A. Bachschmidt che racconta, attraverso la voce di chi quella notte era lì, il bliz della polizia italiana alla scuola Diaz di Genova e poi alla caserma di Bolzaneto. E’ stato il mio ultimo film visto a questa Mostra del Cinema ed è stato l’unico film che mi ha fatto piangere, tanto, a singhiozzi, come mi era capitato con Redacted di De Palma nel 2007.
Qui Le voci sono quelle di uomini e donne che dieci anni fa erano ragazzi, venuti da tutta Europa per contestare i Grandi della Terra. L’occhio della macchina da presa è rigoroso e teatrale, spoglio da qualunque vezzo interpretativo, completamente aperto ad accogliere la voce degli intervistati. Che parlano, parlano, fanno solo quello, con la precisione del dettaglio di chi ha visto tutto e riesce a farci vedere tutto. Ma la protagonista non è la violenza, è la dignità, il rispetto del dolore, la voglia forte di non dimenticare. E soprattutto è centrale un messaggio necessario, oggi più che mai, civile, fondante per ogni società di persone: il gesto repressivo del potere forte va molto oltre la violenza fisica che può infliggere. Il vero intento è togliere ai cittadini il diritto e la liberà di poter pensare a un mondo migliore e ad agire per questo. E così, a dieci anni di distanza, Genova ci può ancora insegnare qualcosa.

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