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cultura dell'immagine e della parola

Jonathan Demme al Milano film festival

Jonathan Demme«Lesson number one: non aspettate che qualcuno vi offra la possibilità di diventare regista. Quando mi chiedono ‘Cosa dobbiamo fare per diventare filmmaker?’ io dico: siate filmmaker». Jonathan Demme – che, in coda all’omaggio dedicatogli dal Milano film festival, ha tenuto una brillante lezione di cinema in compagnia di Luca Guadagnino al Teatro Strehler – ha ripercorso la sua carriera di cineasta e, pensando ai suoi esordi, ha consigliato di non seguire il suo esempio (la sua carriera di regista iniziò per puro caso), ma di fare piuttosto come Guadagnino che invece volle, fortissimamente volle diventare regista.

Demme scriveva note di produzione all’interno della factory di Roger Corman, «senza alcuna aspirazione di diventare filmmaker», quando – per ricoprire dei vuoti – gli venne proposto, prima di partecipare alla sceneggiatura di un «Hell’s angels movie ispirato a Rashomon, pieno di violenza e di omicidi», in seguito di diventare regista di seconda unità e, infine, di dirigere in prima persona un film, sempre nell’ambito degli exploitation movies cormaniani. Frutto di volontà e di determinazione è stato invece l’ingresso nel cinema di Guadagnino che racconta ad esempio di quando, dopo aver visto a Samarcanda un operaio della Fiat gridare la sua rabbia, decise di filmarlo e – con l’unico sostegno di una forte motivazione – iniziò una ricerca durata a lungo che terminò con un viaggio dalla Sicilia fino a Torino per incontrarlo e farne il protagonista del suo esordio.

Il leitmotiv della lezione si può dire sia stato l’elogio dell’indipendenza, della forza di volontà e dell’autonomia creativa. Elogio particolarmente significativo perché arriva da un regista come Demme che ha dimostrato di saper lavorare sia con alti budget e grandi star, nella logica ferrea degli studios, sia con materiali poveri e in totale indipendenza. Quando Guadagnino ha chiesto a Demme di spiegare la sua traiettoria attraverso film così diversi – per impegno economico e produttivo – come quelli che formano la sua vasta filmografia, il regista americano ha detto di fare scelte dettate unicamente dal suo entusiasmo. Il suo abbandono delle grandi produzioni e il ritorno ai piccoli budget e all’indipendenza avvenne – come aveva ricordato il giorno prima nell’incontro con la stampa – dopo che, girando The Manchurian candidate (2004), «mi resi conto che non mi divertivo più tanto e capii che i film ad alto budget erano troppo impostati a formule rigide».

Entrambi i registi hanno convenuto sul fatto che avere un’idea forte, uno sguardo originale sia in fondo più importante dei finanziamenti. Demme ha sostenuto che «oggi la tecnologia rende possibile realizzare immagini sempre più belle a prezzi sempre più accessibili» e, d’altra parte, «il cinema sta nel punto di vista, non nello splendore delle immagini», mentre Guadagnino ha citato qualche film che, grazie alle idee originali, riesce a colpire lo spettatore nonostante i budget risicati: Monsters di Gareth Edwards o il giapponese Saudade, film passato in concorso all’ultimo festival di Locarno (dove il regista italiano era in giuria), «film di grande forza, che mi ricorda Nagisa Oshima».

Ripercorrendo la carriera di Demme, Guadagnino ha sottolineato come nei suoi film siano spesso presenti dei piani ravvicinati di personaggi che guardano verso l’obiettivo. Demme ha spiegato che queste inquadrature nascono come omaggio ai film di Hitchcock e di Fuller, per i quali erano una sorta di marchio identificativo. Ha poi continuato a sperimentare su questo genere di inquadrature, con la convinzione che siano lo strumento più efficace per coinvolgere lo spettatore nella vicenda e che «più vicino è all’obbiettivo l’attore che guarda in camera più potente risulterà l’inquadratura».

Altra costante di Demme è la capacità di spaziare tra i vari generi e di mischiarli in un singolo film. Paradigmatico in questo senso è Qualcosa di travolgente, che – nelle parole di Guadagnino – «inizia come una tipica yuppies comedy dell’era reaganiana, acquista poi toni dark e finisce mischiando romanticismo, tristezza e gioia» rivelando una straordinaria capacità di fondere i generi «in modo vivo, organico, non gerarchico». «Io non penso in alcun modo in termini di ‘generi’ – ha detto il regista americano – ma preferisco focalizzarmi sui personaggi»: dando questa rilevanza ai characters, «le storie riescono a rivelare quegli stessi mutamenti di tono, quello stesso mix di commedia e di tragedia che si trova nella vita». Per esempio, «Il silenzio degli innocenti a quale genere appartiene? Al thriller? Non lo so. So che quando Jodie Foster lesse il copione mise in luce che si trattava soprattutto della storia di una giovane donna che fa tutto il possibile per salvare la vita di un’altra giovane donna. Ho estratto questo tema e l’ho messo in rilievo…».

Riguardo al suo metodo di lavoro, Demme ha sottolineato l’importanza dell’improvvisazione: «lo script è importante, ma deve essere la tua Bibbia, non la tua prigione». L’improvvisazione è stata sperimentata in particolare in un film come Rachel sta per sposarsi, dove gli attori erano invitati a non attenersi rigidamente al dialogo scritto nel copione e dove anche il lavoro della macchina da presa non era rigidamente predisposto, ma cercava di imitare i movimenti di un documentarista.

A proposito di documentari – che oggi sono la parte preponderante della sua produzione – Demme ha ricordato la lezione di Frederick Wiseman: per realizzare i suoi “grandi film” si preparava a lungo così da riuscire a integrarsi nei luoghi e ed essere accettato dalle persone che doveva filmare, fino «a diventare uno della famiglia o come la tappezzeria». Demme – riferendosi in particolare al documentario I’m Carolyn Parker – ricorda anche la strana situazione che si ha con le persone che si sono filmate per lungo tempo, quando, al termine delle riprese, ci si trova a interagire con loro senza più la mediazione della macchina da presa: «può sembrare ridicolo, ma a volte non si sa come comportarsi senza camera».

Come documentarista Demme ha riservato costante attenzione alla musica e ai film-concerto (dopo il classico Stop making sense sui Talking Heads, Demme ha realizzato negli ultimi anni vari film su Neil Young – l’ultimo, Neil Young Life, è stato presentato in anteprima proprio al Milano film festival). Per Demme i film sulla musica dal vivo sono «la forma più pura di filmmaking» in quanto «privi di artifici» («puoi raccontare una storia senza le costrizioni di una storia» ha chiosato Guadagnino). Il regista americano ha sottolineato in particolare la forza narrativa delle canzoni di Neil Young, definendole «extremely cinematic»: «col rischio di fare troppi film su di lui, penso che tornerò a lavorarci assieme».

E oggi a cosa sta lavorando Jonathan Demme? Presto la Tv americana trasmetterà il pilot da lui diretto di una serie, A gifted man, scritta da Susannah Grant (la sceneggiatrice di Erin Brockovich): è la storia di un neurochirurgo perseguitato dal fantasma della sua ex moglie («amo le potenzialità della televisione e la possibilità di essere visto da così tante persone»). In cantiere ci sono poi un lungometraggio di animazione tratto dal libro Zeitoun di Dave Eggers (ennesimo ritorno di Demme a New Orleans e sull’uragano Katrina) e poi un film tratto da Stephen King.

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