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I colori del cigno

I colori del cigno

L’insostenibile pesantezza del regista di Riccardo Vanin ****

Darren Aronofsky, regista leggiadro e sensibile non lo è mai stato. Si è sempre fatto carico delle aspettative, quasi sempre infrante, dei suoi protagonisti con coraggio e totale mancanza di pudore. Lo abbiamo apprezzato in Requiem for a Dream per la mirabolante estetica e l’incedere convulso e inarrestabile con cui ci ha accompagnato nel suo itinerario dantesco al rovescio. Con Black Swan il regista si è lasciato tentare dal gioco di specchi, rifrazioni e distorsioni che la metamorfosi del cigno gli ha servito su un piatto d’argento.

Ma fingiamo di perdonare il suo entusiasmo e il suo narcisismo (che d’altronde possono essere pregi – si veda Tarantino). Altresì non aiuta alla buona reputazione del film la sua struttura costruita sul collaudo e incastro di elementi contrastanti (il cigno bianco e il cigno nero, la brava ragazza e quella cattiva, perfezione e seduzione) e ossimori (la scheda del film: Aronofsky che fa un film sulla danza, che non è un semplice film sulla danza, ma un thriller/horror sulla danza). Pastiche, calderone, come si vuole chiamarlo non importa. Tutto ciò che c’era di vagamente torbido si può ammirare in neanche un’ora e cinquanta di film: droga, alcool, sesso (nonché lesbismo e autoerotismo), sangue, omicidi. Ma il problema non è questo: non siamo qui per tenere una lezione di morale e bon-ton. Mettiamo pure che tutto il propinabile (e propinato) sia mostrato con ordine e rigore (bugia!). Ebbene, tutta questa accozzaglia eterogenea non coagula in una danzante furia tragica. “Perditi!”, questo è ciò che il maestro Thomas (Cassel) suggerisce all’allieva Nina (Portman). Si scatenano i processi di metamorfosi (lei diventa il Cigno) e di alienazione (le sue paure si estrinsecano concretizzandosi in un essere multiforme che assume prima i tratti della sua collega Lilly e poi il suo stesso volto). Interessante lo spunto, ma Aronofsky non è Lynch, a cui spesso cerca di rifarsi, e questo forse non l’ha ancora capito – la scena più debole di Requiem for a Dream era, appunto, lo sfottò semi-onirico a ritmo di rumba ai danni della vecchia dipendente da anfetamine – e il giovane regista si serve di un roboante simbolismo, oscuro ma mai seducente, per scavare nel rapporto tra incubo e reale. Risibile anche la poetica della metamorfosi corporale che pervade il film, che non risparmia piccoli seppur schifosetti tagli e abrasioni.

La ragion d’essere del film è però la sola Natalie Portman, che, braccata in ogni momento dalla macchina da presa, resiste eroicamente all’estenuante stalking, mantenendo dei livelli di fascino e recitazione straordinari.

Nina contro Nina di Raffaele Elia ********

Un potente thriller psicologico che dal primo minuto intrappola lo spettatore nelle viscere di un mondo del balletto mai così lontano dagli stereotipi e dall’immaginario collettivo in cui la danza classica, sinonimo di romanticismo, è riservata ad un pubblico snob e sensibile. Una sceneggiatura inesorabile, un’eccellente colonna sonora che amplifica ogni sensazione e una regia incalzante che obbliga ad allineare lo sguardo e “lo stomaco” alla visione deformata della protagonista.

Natalie Portman ha dato tutto, psicologicamente e fisicamente, allenandosi per diversi mesi per cinque ore al giorno, riuscendo a trasmettere con estremo realismo la fatica degli allenamenti e l’ansia che accompagna la ricerca ossessiva della perfezione. La macchina da presa non le dà mai tregua con movimenti frenetici, primi piani e carrellate nervose che sembrano penetrare dalle profondità dei suoi occhi fino all’anima, ricordando il Brian De Palma più debordante e visionario. Il viaggio onirico di Nina si svolge in una sorta di apnea della psiche, dove si smarriscono i punti di riferimento. La scenografia, ricca di specchi, è abitata da ombre, doppi e rivali, forse immaginarie. Anche l’inquietante stanzetta da bambina, dominata dal rosa e colma di bambole, carillon e peluche, da rifugio sicuro si trasforma in un inferno claustrofobico degno dei morbosi noir di Robert Aldrich; qui la protagonista subirà infatti la “seduzione mortale”, vivrà la sensualità disperata e risolverà l’opprimente rapporto con la madre, una mostruosa Barbara Hershey. Infine, quando per Nina il dolore fisico e quello psichico diventano insopportabili, ecco che le allucinazioni sanguinolente adornano il dramma di tinte horror, cerchiando di nero impressionanti occhi rossi.

Nel cast, d’obbligo segnalare la sorprendente Mila Kunis e Winona Ryder, terrificante “ballerina interrotta”. Arofnosky conferma le notevoli qualità stilistiche e l’indole visionaria che dal cult Pi greco – Il teorema del delirio (1997), passando per l’intensa fisicità di The Wrestler (2008), lo hanno portato in un lago (molto nero) dei cigni.

Curiosità
Il film è stato scelto per l’apertura della Mostra del Cinema di Venezia 2010, dove Mila Kunis ha vinto il Premio Marcello Mastroianni per il migliore attore emergente.

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