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cultura dell'immagine e della parola

Fratelli
d’Italia?

Ormai da mesi la RAI sta mandando in onda lo spot che invita gli italiani al pagamento del canone, quest’ultimo già oggetto di controversie e strumentalizzazioni politiche. Non bastasse l’argomento, ad accendere gli animi ci si è messo anche il modo in cui il messaggio è stato lanciato, che a molti è parso “intellettualmente” discutibile. I vari spot, infatti, mostrano uomini e donne che parlano nelle situazioni più diverse (ora durante una partita di basket, ora durante una recita, ora di fronte a due sposi) in dialetto, di fronte a degli interlocutori che non capiscono una parola di ciò che dicono. Il fine della campagna sarebbe dovuto essere quello di mostrare come la RAI, lungo il corso della sua storia, sia stata capace di unire le diverse culture e tradizioni del nostro paese, simboleggiate appunto dai dialetti; il guaio è che molti spettatori hanno compreso l’esatto contrario e si sono sentiti offesi da una campagna pubblicitaria che, a loro dire, offende i dialetti, lingue vive e con una loro dignità, e le tradizioni locali. Dai leghisti alle associazioni di “intellettuali” e custodi delle locali “culture”, c’è stato da nord a sud un moto di indignazione, con tanto di gruppo su Facebook intitolato Contro lo spot Rai 2010 sui “dialetti”: vergogna, sono lingue vive!, dove accanto alle proteste nei confronti dello spot incriminato è stato messo all’indice anche l’intervento di Benigni durante il Festival di Sanremo di quest’anno, reo di aver sbeffeggiato i dialetti nel suo desiderio di fare il panegirico della lingua e della cultura italiana.

Senza entrare nel merito del discorso sul canone, che l’ultimo spot RAI sia a dir poco discutibile è un dato di fatto, ma non per le motivazioni che le tante voci critiche hanno sottolineato. La campagna della TV pubblica sul canone è discutibile perché utilizza il dialetto, e non l’italiano, in uno spot che vuol trarre il suo punto di forza dal ruolo che ha avuto la RAI nell’unire linguisticamente un paese che, dopo la guerra, aveva ancora un’alta percentuale di popolazione che l’italiano lo parlava poco o affatto. Accusati di aver denigrato e ridicolizzato il dialetto, in realtà ciò che gli ideatori di questo spot hanno fatto è ridicolizzare la lingua italiana, limitata alla voce fuori campo che invita a pagare il canone. Criticata dai leghisti, questa campagna pubblicitaria è specchio di un’Italia sporcata dalla cancrena del particolarismo, del provincialismo, delle “mogli e buoi dei paesi tuoi”, in cui il dialetto diventa una lingua che non riesce a interloquire con l’italiano e quest’ultima, la lingua ufficiale, da essere nostra lingua madre appare semplicemente quella che ci obbliga a pagare il canone, quella delle imposizioni, quella delle leggi che si vogliono trasgredire.

Che tali cantonate possano esser prese da un partito che ha fatto dell’ignoranza il suo cavallo di battaglia è, nel nostro paese, ormai diventato più surreale di un film di Švankmajer, in un certo qual modo comprensibile; risulta invece difficile, e sinceramente insopportabile, assistere anche da parte di altre voci a questa difesa del dialetto, come se quest’ultima fosse la nostra prima lingua e l’italiano la seconda (anzi, la terza, perché più inutile dell’inglese). Ormai quello della globalizzazione è un concetto così comune da essere utilizzato per parlare di qualsiasi cosa, eppure in Italia ci sono persone che non si indignano perché in uno spot che vuole legarsi ai festeggiamenti per l’Unità non vien detta una sola parola d’italiano, bensì perché il dialetto appare incomprensibile; non ci si esalta di fronte alla bella esegesi fatta da Roberto Benigni sull’inno di Mameli, ma lo si attacca perché avrebbe denigrato la “cultura locale”. Fermo restando il rispetto per la storia di ogni regione d’Italia e la consapevolezza di come i dialetti siano simbolo della ricchezza e vivacità culturale della nostra terra, lascia senza parole la constatazione di come, di fronte al mondo che irrompe in tutta la sua violenza, una parte del nostro paese vorrebbe ripiegarsi su se stesso, mettere la testa sotto la sabbia come fanno gli struzzi, ripensare al “bel tempo che fu”, quando il sud era il cortile privato dei Borbone, il nord diviso in stati privi di peso internazionale e l’Italia una mera “espressione geografica”. Lo spot della RAI sul canone è, dunque, specchio di questa Italia che ancora una volta si dimostra abilissima a gettar fango sui suoi eroi, che difende le “culture locali” senza conoscere la cultura nazionale, che vuol apprendere il dialetto quando ancora non riesce ad esprimersi in italiano; l’Italia che distrugge il suo patrimonio storico-artistico perché non lo conosce e non lo vuol conoscere e si compiace di ignorare la sua Storia per crogiolarsi nelle storielle di paese credendo di nascondere, in questo modo, la sua colossale pochezza morale e intellettuale.

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