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Romanzo di una strage: Rispieghiamo Piazza Fontana per chi era presente

Rispieghiamo Piazza Fontana per chi era presente

L’abbiamo fatto più volte e potremo rifarlo. Dopo aver visto Romanzo di una strage potremo cioè mettere davanti all’analisi filmica e alla sua estetica narrativa, l’utilità sociale di un film necessario, che ripercorre le tappe fondamentali dell’odissea storico-politica della Strage di Piazza Fontana, ovvero la Strage delle stragi, la strage di Stato, la Strage che ha fatto svegliare un paese, il nostro, in quella che molti chiamano ancora la notte della Prima Repubblica. Nel farlo però, questa volta, ci sentiremo colpevoli di aver omesso proprio l’assenza quell’efficacia che dovrebbe possedere un film di tale ambizione storica. Partiamo dall’inizio: il film di Marco Tullio Giordana, ispirato dal libro di Paolo Cucchiarelli Il segreto di Piazza Fontana, viaggia come un’indagine meticolosa sugli intrecci fra Stato, servizi (più o meno deviati), anarchici milanesi e neofascisti padovani. E fra i tanti personaggi (fra cui l’onorevole Aldo Moro splendidamente interpretato da Fabrizio Gifuni), è il protagonista Valerio Mastandrea (qui un Commisario Calabresi atipicamente eroe positivo) e co-protagonista Pierfrancesco Favino (qui l’anarchico Pinelli) che guidano lo spettatore nelle trame oscure della strategia della tensione. E’ una carrellata, divisa per capitoli, che documenta gli episodi più importanti che precedettero e seguirono la Strage alla Banca dell’Agricoltura, quel 12 dicembre del 1969: dalle prime indagini sugli anarchici ritenuti inizialmente i colpevoli della bomba, alla “caduta” di Pinelli dal quarto piano della questura di Milano, dalle vicende dei neofascisti di Ordine Nuovo a quelle dei nobili Principi golpettari (Valerio Borghese). Fino a portare lo sguardo della mdp anche dentro a una stanza ben arredata del Quirinale, dove il Ministro degli Esteri Aldo Moro presenta al Presidente della Repubblica Saragat la sua indagine parallela sui fatti di Piazza Fontana. Fin qui, nessuna sorpresa: è il cinema politico più tipicamente simile a quello dei maestri di Tullio Giordana, Francesco Rosi su tutti. Un cinema asciutto, asettico, giocato negli interni grigi e fumosi degli uffici di Stato, rituale e didascalico. Eppure a differenza di molti capolavori del genere, è un film che non convince affatto.

E’ qui torniamo alla nostra osservazione iniziale: ciò che veramente manca a Romanzo di una strage sono due cose. La prima è l’Italia di quegli anni. Il paese e la sua quotidianità è tagliato fuori dagli spazi, viene riesumato in filmati da repertorio, ma tutto l’impianto narrativo di Marco Tullio Giordana si muove attraverso lo sguardo costante sull’istituzione trincerata nei suoi uffici. La freddezza del racconto appassiona chi ne è già appassionato, chi sa muoversi con destrezza nel ricordo di quei fatti, chi conosce la storia (che non si insegna a scuola), precedente e successiva a Piazza Fontana o chi già ha vissuto quell’Italia e quel clima. Chi ne è tagliato fuori (anche dalla mancanza di didascalie ai personaggi) rimane naufragato. Intendiamoci: noi siamo riusciti a navigare fino alla fine, ma contrariamente alle affermazioni del regista, questo non è un film per le nuove generazioni. L’altra mancanza, che alimenta lo stesso meccanismo di distacco, è la dimensione intima, profondamente necessaria per coinvolgere lo spettatore anche in un immaginario esclusivamente “pubblico”. Mentre nei Cento Passi, Marco Tullio Gioardana era riuscito a declinare l’intimo nel pubblico, qui il regista pensa di risolvere la questione in un paio di battute fra Calabresi e Pinelli (e in una scena finale, la più quotidiana e bella dell’intero film, quella della cravatta “bianca” o “rosa” fra Calabresi e sua moglie). E’ decisamente troppo poco, così come è troppo poco affidarsi alla sola bravura degli attori e una buona fotografia. Anzi, la narrazione cinematografica rischia così di essere uccisa dal posticcio: ci accorgiamo presto di assistere a un cinema minore che sacrifica l’immagine al testo, il racconto alla storia e la ricerca della verità alla sua fascinazione. Eppure in altri casi, il cinema politico era riuscito a piegare (a proprio favore) una forma cinematografica più fluida, capace di filtrare il “potere” attraverso la lente d’ingrandimento del Cinema e dell’immaginario popolare ad esso annesso (pensiamo soltanto al Divo, di Paolo Sorrentino, ma anche a ciò che il cinema tedesco è riuscito a fare con Le vite degli altri o, dall’altra parte del muro, con La banda Baader Meinhof).

Marco Tullio Giordana invece non solo si preclude questa strada, ma perfino quella della pura docu-fiction d’inchiesta, come ad esempio su Portella delle Ginestre l’aveva rappresentata l’ottimo Segreti di Stato di Paolo Benvenuti. L’indagine “tecnica” qui è solo abbozzata, sussurrata eppure esplode improvvisamente in un finale fanta-politico degno del miglior Oliver Stone (in JFK c’era la triplicazione dei fucili per altro ben argomentata, qui c’è il raddoppio della bomba come un fulmine a ciel sereno). Ai fatti dunque si sostituiscono le ipotesi, e le vicenda Piazza Fontana si complica irrimediabilmente di nuovo. La polemica in questi giorni fra i protagonisti di quella stagione (Adriano Sofri, Calabresi figlio, l’ex magistrato D’Ambrosio) è la dimostrazione più cristallina che questo film non solo non aiuta a stabilizzare la verità su Piazza Fontana (che pure c’è, storicamente parlando) provando a comunicarla alle nuove generazioni attraverso un vero romanzo cinematografico, ma è anche tentato dall’alimentare nuove polemiche con vecchi personaggi, allontanando una storia che invece dovrebbe diventare patrimonio pubblico, campo di discussione accessibile a tutti: chi l’ha vissuta e chi oggi, appena ventenne, si trova a farci i conti. Tanto che Tullio Gioardana sembra sottotitolare questo film con un “Rispieghiamo Piazza Fontana per chi era presente”. E chi invece era assente? Beh, sembra che ne rimarrà escluso ancora per molto. Qualunque sia la verità che gli vorremmo raccontare.

Curiosità
Anche un compagno di scuola e dell’allora studente Marco Tullio Giordana, Saverio Saltarelli, esattamente un anno dopo la Strage, durante una commemorazione pubblica e gli scontri che ne seguirono, fu ucciso da un candelotto lacrimogeno sparato dai carabinieri ad altezza d’uomo.

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