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17 ragazze: La gravidanza al potere

La gravidanza al potere

Quando 17 ragazze è stato presentato in concorso allo scorso Torino Film Festival le reazioni alla pellicola sono state sostanzialmente due: c’è chi lo ha ritenuto un film peloso, retorico e fondamentalmente “sbagliato”, e chi invece, con non poca sorpresa, se ne è affezionato senza scampo. E’ stato, fra tutti i film in concorso, quello capace di far più discutere pubblico, critici e giura pure. Fintanto che, perfino alcuni giurati, al momento delle nomine finali, hanno finito per litigare proprio su questo film. La recente misura di censura ai minori di 14 anni (ritirata proprio il giorno della sua uscita nelle sale) è un’altra conferma che l’immaginario di quest’opera, oltre che far discutere, fa pure un po’ paura. Dall’altra parte il lungometraggio d’esordio delle sorelle francesi Coulin tratta una storia (realmente accaduta) così incredibile da capovolgere ogni valore etico, sociale e politico: un gruppo di ragazze sedicenni decidono di rivoluzionare la propria vita facendosi mettere incinta dai loro fidanzatini. Il risultato finale saranno 15 adolescenti con il pancione in bella vista, un pancione che diventerà un vero e proprio segno di riconoscimento, come se la procreazione da strumento di controllo sociale si trasformasse improvvisamente in una scelta di ribellione generazionale e, soprattutto, nello strumento più diabolico e definitivo per l’emancipazione femminile.

Ciò che rende fuori dal comune questa storia di ragazzine-madri è infatti la totale assenza di sentimentalismi anti-abortisti. E’ piuttosto un’intelligente e spiazzante risposta all’immaginario junesco, nella quale la determinazione delle adolescenti di far nascere e crescere un bambino (e fare di tutto per averlo), deriva da una convinzione lucidissima che un figlio possa facilitare la loro vita, liberarle dai dogmi imposti dai genitori e dai loro educatori, emanciparle dalla figura maschile che in tutto il film appare innocua, vulnerabile, dominata. Ma non solo: la loro scelta di rimanere incinta, diventa esplicitamente una vera e propria via preferenziale per quello che un giorno saranno comunque destinate a diventare: delle madri che crescono i propri figli. Tanto vale farlo subito, dunque, e da sole. Non c’è insomma alcuna sottovalutazione della propria condizione di ragazze-madri, nessuna involontaria imprudenza, nessuna inconsapevolezza delle potenzialità del proprio corpo e del miracolo della vita. Le adolescenti di 17 ragazze sono, e lo sono fin da subito, mature, razionali, decisioniste. Tanto che il piccolo gruppo di gravide ragazze diventerà presto una vera e propria comunità dove la gravidanza smette di essere un fatto tradizionalmente individuale (o familiare), ma si inserisce in un percorso collettivo totalmente femminile in cui le ragazze si aiutano a vicenda e gestiscono le proprie gravidenze senza (apparente) bisogno di nessun altro elemento di contorno, che siano i genitori, gli educatori o i loro compagni maschi. Nonostante il tema affatto convenzionale, il film viaggia leggero, sognante, grazie anche alla bravura e alla genuinità attoriale delle giovanissime attrici (fra tutte la protagonista Louise Grinberg, già comparsa in La classe e ormai considerata una delle grandi promesse del cinema francese) e grazie allo sguardo in macchina di Delphine e Muriel Coulin. Uno sguardo che ha il coraggio di raccontare la storia senza mai suggerire un punto di vista morale ed etico, scegliendo uno stile documentaristico (documentarista, dall’altra parte, è la stessa Muriel), distendendo gli spazi e i tempi e facendo parlare in primissimo piano sguardi, corpi, musiche piuttosto che accelerare le immagini attraverso dialoghi e campi larghi. E’ una macchina da presa che ricorda la migliore Sofia Coppola, ma immersa nell’immaginario disincantato e quasi fiabesco del miglior cinema d’autore francese degli ultimi anni, tanto che ci verrebbe da scomodare perfino altri due fratelli d’oltralpe come i Dardenne. E’ l’approccio più azzeccato, perché di fatto il film riesce a crescere minuto dopo minuto: la storia che nelle sequenze iniziali appare in una surreale e un po’ scandalosa bizzarria, riuscirà lentamente a svelare tutta la propria radice provocatoria e sovversiva, fino ad appassionare (anche il più scettico degli spettatori) ad un nuovo modo di intendere sia i rapporti di genere che l’universo femminile.

Tutto questo fino alla caduta finale. Perché come tutte le favole amare, anche la storia di queste diciassette adolescenti e della loro eversione biologica non finisce affatto bene ed è destinata a infrangersi nella realtà con la stessa forza con cui hanno iniziato a sognare una vita diversa. Una scena, in spiaggia, dove le ragazze prendono a calci un pallone infuocatosi in un falò (“giocare con il fuoco”) è il presagio della fine, è la minaccia di un salto più lungo delle loro gambe. Non mancherà molto che la disillusione avrà la meglio su tutto il resto: tanto che, chi pure ha amato questo film, non ha perdonato alle registe un epilogo che risolve la questione in un’ingenua e testarda utopia e nulla più. Eppure c’è da chiedersi: è il sogno che si consuma, incompiuto com’è nella sua velletarietà adolescenziale o piuttosto siamo noi adulti che non ci sentiamo ancora pronti a una tale rivoluzione? Il film si ferma qui. Ma su questo, fuori dal cinema, c’è ancora molto da discutere.

Curiosità
La vera vicenda non è avvenuta in Francia, ma in un liceo di Gloucester, nello stato americano del Massachusetts, dove una quindicina di ragazze avevano avuto un bambino nello stesso momento.

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