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Magnifica presenza: Fantasmi a Roma

Fantasmi a Roma

Come il fantasma di Canterville simboleggiava, per Oscar Wilde, un’Inghilterra a mollo nel suo passato di leggende e aneddoti ai limiti del credibile, inaccettabili per il pragmatismo modernista degli stranieri americani, per il Ferzan Özpetek di Magnifica presenza pulsa, a Roma, un cuore sacro di misteri, annidati tra le storie di chi, nella città dei sogni, ha cercato di realizzare se stesso, osservati e vissuti dagli occhi e della pelle di un immigrato, l’unico che forse, nella sua goffa timidezza ma, soprattutto, nella sua estraneità al contesto, può meravigliarsene.

Federica Pontremoli è uno dei pochi sceneggiatori, in Italia, in grado di contrassegnare i suoi copioni con un marchio riconoscibile, che riluce di realismo magico e sprazzi d’audace visionarietà. Özpetek, naturalmente, porta con sé i suoi temi: l’enigma della morte, la solitudine metropolitana, la famiglia latamente intesa, la sessualità liberamente praticata (?) lontano da casa. L’incontro di due personalità così fertili genera frutti saporosi, ma anche un surplus: la ghost story capitolina espande le sue ambizioni a macchia d’olio, pretendendo di inglobare anche una riflessione sulle ferite del passato remoto, sulla viltà degli esseri umani e molto altro ancora. Il tutto a prezzo di una trama macchinosa, brusche accelerazioni, fidanzamenti come dei ex machina e quant’altro. Un “troppo” che contagia anche il sonoro, appesantito da Mickey-mousing spiritici ridondanti, e un montaggio eccessivamente virtuosistico, gravato da ralenti spesso gratuiti. La dichiarata ispirazione al pirandelliano Sei personaggi in cerca d’autore, con tanto di trasferta finale al Teatro Valle dove il dramma debuttò, imprime, tuttavia, uno slancio. Alla ricerca di qualcuno che li sottragga alla trappola in cui sono impaniati, i fantasmi della Apollonio assurgono a metafora della condizione di tutti noi, delle nostre paralisi esistenziali e del senso di alterità dal proprio (sconosciuto) destino che Pietro sperimenta su di sé. Özpetek allestisce una sua personale camera verde dove gli affetti su cui contare davvero sono, naturalmente, quelli dei defunti, migliori dei vivi, di chi, un tempo, li tradì senza pietà e di chi, oggi, calpesta le speranze altrui.

Elio Germano ci cattura con un languore di colmo di triste ingenuità e con i tic perfezionistici del suo personaggio, in lussuosa compagnia di un cast formidabile, nel quale Andrea Bosca primeggia per fascino funereo e Margherita Buy, versione Jean Harlow, per trasformismo, mentre alla struggente Anna Proclemer è affidata la battuta madre «Solo l’arte sopravvive». Dopo due prove deludenti, inibite come Un giorno perfetto, o indigeste come Mine vaganti, tra episodiche cadute di stile (la sequenza della sartoria; la Badessa e il suo innominabile interprete), l’immancabile tavola imbandita e alcune allegre pennellate almodóvariane (Monica Nappo, sosia o quasi di Rossy de Palma), Özpetek riesce a recuperare lo standard dei suoi titoli migliori e a regalarci un film amabile e generoso.

Curiosità
Come dichiarato da Ferzan Özpetek durante la conferenza stampa romana, il titolo del film suonava inizialmente Magnifiche presenze, in riferimento ai fantasmi. Il regista e la sceneggiatrice hanno poi optato per un’inversione di senso: la Magnifica presenza è quella di Elio Germano che, nella suo status di vivente, rappresenta uno strappo alla norma.

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