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L’arrivo di Wang: l’ordalia della comunicazione

L’ordalia della comunicazione

Chi è il signor Wang? Forse un immigrato cinese, magari un criminale, spia di un paese nemico. Oppure, più semplicemente, un diverso, forma di vita estranea, che pone gli uomini di fronte a quell’eterno problema che è la necessità di comunicare. Una necessità che a volte nasce dal desiderio, altre dall’obbligo, e che spesso è vista come un’ordalia a cui si vorrebbe rimaner sordi.

Tutto il film dei Manetti Bros è fondato sul concetto di comunicazione e su quello di apparenza. Del primo è rappresentazione il personaggio di Gaia, la giovane traduttrice di lingua cinese, che con il suo lavoro e la sua personalità è il simbolo concreto del dialogo, dell’ascolto, del desiderio di comprendere gli altri. Al suo opposto, il personaggio di Curti (interpretato da un “cattivissimo” Ennio Fantastichini) che sin dalla sua indefinita figura professionale (non ci è dato sapere chi sia realmente e cosa faccia) appare come una forza che al dialogo si oppone, preferendo contrapporre una sordità volutamente ottusa, una forza violenta e apparentemente ingiustificata. Tra questi due opposti, fortemente estremizzati e forse anche per questo decisamente stereotipati, si erge la misteriosa figura del signor Wang, che rappresenta il secondo concetto alla base di questa sci-fi: l’apparenza. A lui, i due registi affidano il compito di sorprendere sia i protagonisti che gli spettatori, sorprendendoli, illudendoli e, proprio per questo, rendendoli complici inconsapevoli di una colpa. È un duello quello che i Manetti Bros mettono in scena; un duello tra categorie universali (giustizia e ingiustizia; umanità e disumanità; razzismo e fratellanza) che si svolge nelle pareti strette e anguste di una stanza di cemento; stanza più consona a un film di guerra o ad un poliziesco. In verità, L’arrivo di Wang potrebbe benissimo afferire a questi due generi: cos’è quella tra Curti e Gaia, se non una guerra tra due diversi modi di vedere il “diverso”? Che cos’è la ricerca della verità da parte di entrambi, se non un’indagine, che avrà il suo epilogo in un finale venato di comicità nera?.

Le idee buone, nel film di Marco e Antonio Manetti, non mancano di certo; e di certo per fare un buon film non servono effetti speciali mirabolanti, come L’arrivo di Wang dimostra e come avrebbe potuto ulteriormente dimostrare se i dialoghi e, soprattutto, le interpretazioni dei vari personaggi, in primis quella di Ennio Fantastichini e Francesca Cuttica, non fosse stata così terribilmente vicina ai modi e allo stile di una mediocre fiction televisiva. Lo scontro tra Gaia e Curti avrebbe meritato una verve, un’intensità interpretativa maggiore; giustificare la stereotipizzazione del modus interpretativo come una scelta voluta da parte dei due registi potrebbe essere corretta, ma solo in parte. Rimane comunque un’opera che si guarda con interesse, una delle poche incursioni italiane nel genere fantascientifico che della sci-fi riesce a recuperare il valore più profondo: essere metafora capace di parlare dei giorni nostri guardando al futuro. O a un presente apparentemente troppo incredibile per esser veritiero.

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