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Hugo Cabret: venite a sognare con me

Venite a sognare con me

Che nessuno si azzardi a storcere il naso per il 3D. O almeno, per questo 3D: fidatevi, Hugo Cabret è da vedere necessariamente in stereoscopia. Martin Scorsese realizza una straordinaria dichiarazione d’amore al cinema, raccontando le origini della Settima arte attraverso le tecnologie che, secondo alcuni, la rendono moribonda. E invece reinventa, libera, vola e da creatore di sogni, dona la scintilla dell’emozione a una Parigi anni Trenta ricostruita digitalmente e abitata da sogni e speranze di chi ancora sapeva immaginare un mondo migliore.

Hugo Cabret è un orologiaio, i cui meccanismi ricordano e hanno ispirato quelli di un proiettore. Isabelle è una fervente lettrice e vuole vivere un’avventura. Papà Georges è un illusionista giocattolaio in cerca di riscatto. L’ispettore ferroviario insegue i ragazzini perché non ha ancora imparato a sorridere. Un cast perfetto per una storia semplice, adatta ai ragazzi, ma capace di narrare molto di più. Per esempio la carica emotiva di un mondo di artigiani e meccanici, di fioraie e matrone, in cui la fine della guerra aveva lasciato campo libero all’immaginazione e alle opere dell’ingegno. Così come era accaduto al Cinema, «un’invenzione senza futuro» secondo Antoine Lumière (papà dei fratelli), diventato poi «l’occhio del Novecento» (definizione di Francesco Casetti). Hugo Cabret racconta tutto questo, e molto di più, con infinita leggerezza. Solo Martin Scorsese, da cinefilo con l’animo puro di un dodicenne innamorato del cinematografo, poteva dare vita, 24 fotogrammi al secondo, al fantasmagorico libro illustrato di Brian Selznick. Un’opera che sembra una straordinaria invenzione e invece prende spunto da una incredibile storia vera. Senza anticipare troppo, raccomandiamo, una volta visto il film, di consultare questa pagina di wikipedia per mantenere vivo il ricordo di come sia possibile un lieto fine anche fuori dalla sala cinematografica.

Dopo numerosi film non convincenti, ma pur sempre stilisticamente ineccepibili, Scorsese ritrova un’altra giovinezza rifocillandosi alla fonte del Cinema (con la C maiuscola) e usando il 3D, non per stupire, ma per donare profondità all’emozione (fidatevi) e ritrovare l’anima del raccontare: la fiaba. Già nel prodigioso prologo scopriamo il mondo di Hugo in piano sequenza attraverso cunicoli e meccanismi, rimandando la nostra memoria inconscia di figli del Novecento a Chaplin, Keaton, Lloyd, ma anche a Hitchcock. Una storia in cui il passato viene evocato attraverso il rumore di un proiettore («potrei riconoscerne il rumore a chilometri di distanza», dice papà Georges) e non a caso il flashback è nato proprio con il cinema. Per non parlare della forza con la quale il 3D riporta in vita, più e più volte, la locomotiva che entra in stazione (di lumeriana memoria). Ma in qualunque modo cercheremo di descrivere la potenza visiva ed emozionale (non solo cinefila, ma anche storica e umanistica) messa in campo da Scorsese sarebbe riduttivo (e se ne scriveranno di saggi!). La verità è, come spiegano i buoni maestri, che il Cinema è figlio di due madri: la Scienza e la Magia. E mai come oggi, con gli occhi rigonfi di lacrime e il cuore di commozione, questo concetto è diventato chiaro.

Curiosità
Martin Scorsese appare nel film e si ritaglia, probabilmente con gran divertimento (e desiderio), la parte del fotografo che immortala il personaggio (che continuiamo a non voler nominare) di Ben Kingsley. Quando si dice metametacinematografico.

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