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Polisse: all Children Are Bastards

All Children Are Bastards

Se in Italia ci si scanna su ACAB (spottone pro o contro le forze dell’ordine?), in Francia, Maiwenn Le Besco percorre una sua personalissima terza via e, come la fotografa interpretata in Polisse, racconta la vita di un corpo della polizia senza l’ansia di emettere sentenze a uso e abuso dello spettatore o schierarsi con una delle fazioni in campo. Premio della Giuria a Cannes, Polisse (il nome è la storpiatura infantile di ‘police’), terzo lungometraggio dell’ex modella Maiwenn, si nasconde tra le pieghe della quotidianità della Brigade de Protection des Mineurs attraverso gli occhi -e l’obiettivo- di Melissa, incaricata dal ministero di realizzare un reportage sull’attività della sezione. Maiwenn ritaglia per sé un ruolo marginale e, con uno stile documentaristico connotato di forte realismo (nei dialoghi come nei momenti di pathos), entra, silenziosa, nella vite degli altri in divisa, lasciando parlare vittime, carnefici e poliziotti.

In Polissenon c’è vero canovaccio: tra casi di stupro, pedofilia, madri che praticano la masturbazione sui figli e retate in campi rom, è il privato dei protagonisti, incapaci di restare indifferenti all’inferno del sesso che gli esplode in faccia, a portare avanti la storia. Mentre prende corpo la relazione tra Melissa e un agente, il burbero Fred, le giornate della ‘brigade’ si susseguono uguali e diverse fino all’assurdo finale, con un ‘doppio salto’ che lascia scoperti tutti i fili e rinuncia a cercare qualunque sintesi. Nel film corale di Maiwenn non c’è spazio per divisioni manichee: le urla strazianti del bambino separato dalla madre convivono con le risa sguaiate per l’adolescente ingenua che si ‘concede’ per uno smartphone; si guarda, con simpatia, ai legami corporativi del gruppo ma non c’è agiografia del Bravo Poliziotto; c’è pietà per le vittime ma anche i carnefici non sono mostri e hanno, che piaccia o meno, diritto di replica. Maiwenn sfoglia le istantanee di questo suo ideale reportage: alcune di forte impatto, come quelle del feto abortito che giace su un tavolo o dei bimbi rumeni allontanati dai genitori che improvvisano una canzone sul bus della polizia. Non c’è mai auto-compiacimento o esibizione fine a se stessa: se Polisse ha un limite è solo quello di spingere sull’acceleratore emozionale quando entra nel privato di agenti che spesso (troppo) ricalcano lo stereotipo del genitore divorziato e, per paradosso, incapace di difendere i bambini che gli sono più vicini: i propri.

Maiwenn non punta il dito contro nessuno e ricorda, scatto dopo scatto, interrogatorio dopo interrogatorio, che le colpe di padri e madri ricadano sui figli: i quali, nella visione distorta degli adulti, sono corresponsabili delle violenze contro di loro perpetrate. Il bambino che, prima dello scioccante finale, prova compassione per il violentatore e ci chiede perché, se la pedofilia è una malattia, questi non vada in ospedale anziché in carcere, esprime una militanza: quella fedele all’osservazione dei fatti più che alla loro classificazione preconcetta. Come accade in Italia coi Guelfi e Ghibellini che, grazie ad ACAB, possono tornare a darsele di santa ragione.

Curiosità
In Francia, a causa della presenza di un’istituzione governativa incaricata di proteggere i ragazzi che recitano, la regista ha dovuto più volte modificare la sceneggiatura prima di ottenere la definitiva approvazione.

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