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cultura dell'immagine e della parola

Sotto questa Mole – 30 novembre

Una scena di <i>Jess+Moss</i> di Clay JeterSe dovessi farmi un cartolina di questo TFF, stampandomi un fotogramma di un film presentato al Festival, non esiterei e sceglierne uno a caso fra quelli di Jess + Moss, film presentato in Festa Mobile e atteso da molti dopo il buon successo ottenuto all’ultimo Sundance Festival.
Jess + Moss, come suggerisce il titolo, è un film sul legame. Sul legame particolare che unisce Jess (Sarah Hagan), ragazza diciottenne dalle lunghe gambe e dal viso scolpito (ricorda una giovanissima Brooke Shields) e suo cugino, nonché miglior amico, Moss (Austin Vickers), più esile e giovane di lei. è un rapporto simbiotico, che prende forma fra giochi e chiaccherate nell’estate afosa e desolata di un’anonima campagna, in qualche sperduto posto in Kentucky.

Un film davvero difficile da collocare (al Sundance era in “New Frontier”, a Berlino in “Generation” e qui avrebbe dovuto forse essere in “Onde”) a metà fra narrazione e sperimentazione visuale, che si stratifica in interni ed esterni, flashback e flashfoward, elementi insomma tanto disordinati quanto incredibilmente coerenti alla narrazione (solo abbozzata) della storia che lega i due ragazzi. L’atmosfera creata dal regista Clay Jeter è indubbiamente avvolgente, girata con una Super 16mm, con grande attenzione ai colori e alla dinamica delle immagini. Ma ci ipnotizza anche un particolare approccio al sonoro, non solo nelle colonna sonora e nel tormentone azzeccatissimo di Tammy’s in Love, ma anche nell’uso dei suoni diegetici che diventano extra-diegetici, e che ritmano il costante andamento temporale della storia.

È un film sfuggente e struggente (come Gummo di Harmony Korinne) capace di comunicare inquietudine nei confronti della vita dei due adolescenti (cosa li ha portati a un tale legame morboso? L’abuso? L’abbandono? Nulla è pienamente realizzato, ma qualcosa continua a tormentarci). Un film sorprendentemente strutturato che ci costringe a scommettere sui nostri sensi più che sulla nostra ragione. Piccolo gioiello sperimentale, che non è passato inosservato qui a Torino.

Sono invece tanti i motivi per cui I più grandi di tutti di Carlo Virzì (secondo film italiano in concorso) non avrà, almeno per me, lo stesso privilegio di essere ricordato come un’opera degna di nota. Virzì (il fratello), decide di imbastire interamente il film attorno alla vicenda dei fantomatici Pluto, rock band di Rosignano Solvay d’inizio anni Novanta che non ha lasciato grandi tracce di sé nella storia della musica nazionale (dall’altra parte il loro hit si intitolava Suonati il culo).
Ma, dieci anni dopo, come un fulmine a ciel sereno, i componenti della band sono chiamati a ripercorrere la loro piccola carriera. Una carriera insignificante per molti, ma decisiva secondo l’opinione di uno pseudo-giornalista in sedia a rotelle che ha parecchi soldi da spendere e che riuscirà a riunire i quattro Pluto per un’intervista collettiva, per il relativo documentario sulla band di una volta e pure per una reunion sul palco. Ovviamente le vite dei quattro membri sono cambiate (per alcuni più che per altri) e tutto il film si focalizza sulla nostalgia dei bei tempi andati, sul successo o insuccesso nella vita e nell’arte, sul ruolo di una band (musicalmente piuttosto caciarona) nelle fatalità di un fan che nemmeno conoscevano.

Un immaginario che in un certo modo potrebbe ricordare film come Cosa fare in caso d’incendio (con la musica al posto della politica), condito con tutta la livornesità possibile e immaginabile (dal Tegame di tu mà ai tanti boia deh, rimasti intraducibili nei sub in inglese) e con un cast di attori che ormai conosciamo bene: Alessandro Roja, Claudia Pandolfi, Dario Cappanera e Marco Cocci. Per carità: io sono toscano e quando sento citare il Baraonda versiliese mi commuovo pure un po’. Ma è inutile negare che l’intero film è debolissimo, un Virzì minore rispetto al fratello (non solo anagraficamente parlando) che gira male e scenografa non bene una rock-comedy che, al di là dei soliti sketch e giochi di parole circoscritti nel provincialismo toscano, non riesce nemmeno a far ridere quanto dovrebbe.
E mentre c’è da stendere un velo pietoso (anzi, pietosissimo) per il Frankie HI-NRG attore nel suo (nemmeno tanto breve) ruolo, è sempre la solita Pandolfi che mantiene in equilibrio tutto il baraccone con le sue moine da maschiaccio punk. In definitiva, e in tutta sincerità, è un film (italiano, poi) che mai mi sarei aspettato di vedere in concorso al TFF.

La giornata di cantonate non finisce però qui: Il corpo del Duce (prodotto, fra gli altri, da Mediaset) delude soprattutto perché brucia metà dei suoi sessanta minuti scarsi a spiegarci chi era Mussolini e perché è morto. Il resto lo punta tutto su foto macabre del cadavere del Duce e tanta, troppa, retorica. Meglio i morti di finzione, mi dico.
Dernière Séance di Laurent Achard è infatti la storia di Sylvain, un placido gestore di un cinema (cassiere, maschera e cineoperatore allo stesso tempo) che dopo l’ultimo spettacolo proiettato se ne va in giro nella notte a uccidere donne solitarie e mozzare le loro orecchie. Film gelido e distaccato che vuole raccontare, riuscendoci talvolta, il rapporto ambivalente con il feticcio cinematografico del protagonista (un bravo Pascal Cervo) ma anche la crisi del cinema e le sempre più frequenti chiusure delle sale di proiezione.
E visto che non c’era abbastanza sangue, il mio vero ultimo spettacolo, l’ho passato guardandomi Bereavement, tipico horror in cui tutti i cliché del caso non mancano all’appello: dal serial killer che appende le vittime ai ganci di un mattatoio (Non aprite quella porta) all’ingenua tettona (Alexandra Daddario) che corre e tira urla a destra e a manca. Sì, è vero, c’è anche un bambino affetto da una malattia che lo rende insensibile al dolore (il perché della sua presenza lo scopriamo solo alla fine), ma il succo non cambia: Berevement è uno slasher-movie sanguinolento e citazionista, messo in programma dai selezionatori perché al TFF si vuole dare dignità anche al genere più estremo. Anche rischiando errori madornali come hanno con questo film.

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