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Sotto questa Mole – 29 novembre

Una scena di <i>388 Arletta Avenue</i><br>di Randall ColeLa mail che quotidianamente mi arriva dall’ufficio stampa del TFF ieri mi ha informato che (e cito) “rispetto alla passata edizione nei primi tre giorni di festival si è registrato un incremento del 7% per quanto riguarda gli incassi e la vendita di biglietti e abbonamenti.” E in effetti la mia sensazione è stata la stessa (perfino oggi pomeriggio non si contavano le code davanti ad alcuni cinema): quando siamo arrivati ormai a metà manifestazione continua a esserci tanta curiosità intorno al cartellone dei film del Festival. Qualcuno farebbe osservare che non c’è da meravigliarsi: come i ristoranti e gli aeroporti anche le sale cinematografiche sono piene. Ma è opinione di molti che il principale motivo sta nella capacità del TFF di essersi guadagnato negli anni una credibilità in termini qualitativi delle selezioni e un’offerta di generi e di sezioni che raramente si ritrovano in altri festival nel mondo.

Sul lato delle proiezioni di ieri, c’è da dire che perfino la sezione in concorso incomincia finalmente a piacere. Dopo l’ottimo 17 Filles e il successivo vuoto (quasi) assoluto, oggi A Little Closer, opera indipendente americana diretta da Matthew Petock, mi è subito apparso come un film degno di nota. La vicenda raccontata è quella di una giovane donna della provincia americana costretta a dividersi fra il suo lavoro di governante e quello di madre: deve crescere da sola i suoi due figli, il primogenito quindicenne e il secondogenito con qualche anno in meno. In maniera diversa eppure parallela, entrambi i ragazzi sono alle prese con i loro primi turbamenti sentimentali e sessuali mentre la made è alla ricerca disperata di un partner che sia innanzitutto un buon padre per i suoi figli.

A Little Closer dall’inizio alla fine è rarefatto, minimalista, discreto, con pochissimi dialoghi e composto stilisticamente da ottanta minuti di macchina a mano che sa esplorare sguardi e comportamenti, suggerendo e mai evidenziando un’angoscia latente e devastante. Ed è innanzitutto un dramma amarissimo sul bisogno d’amore di una famiglia incapace a completarsi in sé stessa, ma che in qualche modo è spinta a una tensione sentimentale verso l’esterno, verso degli oggetti del desiderio tanto reali quanto illusori: la madre in cerca di un marito, l’adolescente che cerca di perdere la verginità a tutti i costi, il pre-adolescente in cerca di un sentimento d’affetto per qualcuno che non è la madre (e che invece è la sua insegnate delle elementari).
L’affresco di un tessuto sociale precario, tanta psicologia freudiana e molta verità, questo è il film di Petock. C’è l’ottima prova da attrice di Sayra Player (che fra l’altro assomiglia fisicamente a Valeria Golino, giurata a questo giro) nel suo ruolo di donna forte eppure totalmente vulnerabile. E poi c’è un finale solo apparentemente consolatorio che in realtà continua ad amareggiarci. Un ritratto stratificato, lontano dal capolavoro, ma che alza il livello qualitativo rispetto agli altri film in concorso.

Ben sotto la media è stato invece il successivo, Gosthed, prison-movie del debuttante inglese Craig Viveiros. Sulla lunga scia di un genere resuscitato in patria dall’ Hunger di McQueen, l’autore imbastisce in un racconto carcerario il dramma personale di un detenuto modello, lasciato dalla moglie tre mesi prima della sua uscita definitiva.
Deciso a ritrovare una nuova missione nella vita, sceglie di proteggere un giovane detenuto appena arrivato e preso di mira dai soliti noti (quelli che fanno cadere il sapone sotto le docce). Ecco, nei primi 90 minuti il film viaggia sereno e noioso sui cliché del genere: detenuti buoni, detenuti cattivi, detenuti saggi, guardie oneste, guardie corrotte… Poi, con una svolta a sorpresa nell’ultimo quarto d’ora (eppure covata fin troppo bene), tutto si capovolge e quello che poteva sembrarci una racconto carcerario buonista alla Nel nome del padre si risolve diversamente (non starò a spoilerare, ma ci arriverete da soli con buon anticipo).
Tutto qua? Sì, tutto qua: una sceneggiatura, come si dice, scritta con i piedi, con qualche buco rattoppato qua e là, tanto che su quei piedi riesce a starci, ma convincere proprio no.

Rimane il tempo per buttarsi su qualcosa che in concorso non c’è: l’ottimo 388 Arletta Avenue, presentato in Festa Mobile, ci ricorda che scavando bene si va scoprire degli ottimi film di genere. Il suddetto thriller, diretto dal canadese Randall Cole, fin dai primi fotogrammi decostruisce l’universo filmico come in un Truman Show della paura, con le inquadrature disseminate in ogni dove: dal cruscotto dell’auto al computer dell’ufficio, dal lampadario in salotto alla bocchetta dell’aria dell’ingresso.
L’“intruso” della storia è dunque il regista stesso, che ci fa vedere quello che vuole lui, mentre un buon maritino tutto casa e lavoro, sconvolto dalla scomparsa della moglie, è invece l’ignaro protagonista di un film che lo porterà alla paranoia.

Costruito e sceneggiato a dovere (forse solo nel finale si articola in qualche scena in più del dovuto), e con una tensione che cresce senza inciampare quasi mai, 388 Arletta Avenue è un esperimento filmico che non confina con la banalità del genere (un esempio su tutti, Paranormal Activity) e non annoia un secondo che sia uno: volenti o nolenti, noi figli del Grande Fratello universale, siamo costretti a seguire morbosamente, inquadratura su inquadratura, le vicende sbirciate e montate dal deus ex machina di turno.
Forse perché, come vorrebbe suggerirci Randall Cole, siamo tutti potenziali burattini mossi dai fili invisibili della tecnologia (che sia una sveglia, un computer collegato a Skype o un CD piratato) o forse perché nell’epoca della privacy violata non solo possiamo essere intercettati, ma perfino spiati e manipolati a dovere. Altre pretese questo film sembra non averne: e anche questo è un punto che va a suo favore.

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