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Il cuore grande delle ragazze: un cuore grande, forse troppo

Un cuore grande, forse troppo

Ciò che colpisce del pensiero fascista, una volta spogliato di tutta la sua pomposa armatura romana, è il suo essere stato specchio di un paese che aveva il suo cuore pulsante non nelle città, bensì nelle campagne. È dall’Italia ancora chiusa, piccola, fallocentrica, proprio come un paese di campagna, che il Fascismo ha tratto il suo ridicolo machismo, la divisione preistorica dei ruoli tra uomini e donne, l’utilizzo spregiudicatamente ipocrita della religione. Prima che nelle città, le famose “squadracce” hanno scorazzato su campi simili a quelli che Carlino, il protagonista dell’ultimo film di Pupi Avati, scorazza con la sua bicicletta per andare a caccia di donne; campi dove la virilità si misura con il numero di “femmine” avute e il matrimonio non è che uno strumento per produrre braccia da lavoro (quello stesso strumento che il Duce incentiverà per produrre braccia per la patria).

Vi è in questo ragazzo, che sembra non far altro se non lavorare a comando e fornicare di gusto, una sorta di bestialità, di umanità elementare, da sempre molto apprezzata dai dittatori di ogni epoca e ideologia. Carlino non pensa: la sua è una vita guidata da bisogni prettamente fisici (il cibo, il sesso, la moto), per soddisfare i quali non c’è necessità di sentimenti e nemmeno di rispettare strettamente le convenzioni, quelle stesse che Francesca, la sua sposa, vuol rispettare in modo ferreo quanto ingenuo. Carlino non pensa perché è un essere che non agisce, bensì obbedisce: al suo corpo, al suo padrone, ai generali che forse, in futuro, lo comanderanno. Se lo status di “essere non pensante”, di essere “obbediente”, da parte di Carlino, è giustificato e avvalorato dalla società fallocentrica in cui vive (società che da sempre giustifica i bisogni del corpo degli uomini, sotto cui assoggetta tutto e tutti), Francesca deve il suo status di “essere non pensante” al suo cuore, quel cuore grande che dà il titolo al film, titolo che altro non è se non una metafora, a ben guardare crudele, per indicare un cuore reso immenso dagli innumerevoli bocconi amari che le leggi degli uomini lo hanno costretto ad ingoiare. Quando Francesca pensa, mette a tacere il suo cuore, lo rende piccolo come una stella che si ritrae per poi esplodere. Ma non ci sono esplosioni, storicamente parlando è troppo presto, e la Storia rientra docilmente nei binari della storia d’amore, per rimandare l’esplosione di quel cuore a dopo la guerra.

Non stupisce che Pupi Avati abbia voluto dare il ruolo di protagonista a Cesare Cremonini: attraverso la sua interpretazione insignificante, infatti, viene resa alla perfezione quella banalità che di lì a poco sarebbe diventata la banalità del male; quella facilità nell’obbedire ai bisogni del proprio corpo che la guerra adatterà per piegare i corpi degli altri; quella crudeltà che scaturisce da persone comuni, normali, apparentemente innocue. Un film che nella semplicità della sua storia lascia intendere ben più di quel che mostra: nell’alito di biancospino di Carlino, che imbambola e conquista le donne, vi è il sentore dei discorsi che dal balcone di Palazzo Venezia imbamboleranno e conquisteranno un’intera nazione.

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