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One Day: profondo rosa

Profondo rosa

Al pensiero che Lone Scherfig, nella natia Danimarca, avesse aderito al Dogma, c’è da strabuzzare gli occhi davanti alle pellicole convenzionali e patinate uscite dalle trasferte britanniche della regista. Dopo An Education, dramma salottiero ispirato a una scipita sceneggiatura di Nick Hornby, One Day rappresenta la seconda collaborazione con un romanziere di chiara fama, David Nicholls, che, firmando da solo il copione, si assume la responsabilità della trasposizione, dalla carta alla pellicola, di un’opera letteraria che gli ha procacciato un voluminoso successo di pubblico e critica.

Il libro non è, in fondo, un capolavoro, ma nel narrare con grazia le vicissitudini di Emma e Dexter seguendo i due protagonisti, per anni, nel giorno di San Swithin, riesce a testimoniare, lungo il saliscendi di una prosa avvincente, i manrovesci della vita, la complicazione dei sentimenti, il disorientamento di una generazione cresciuta al riparo dalle ideologie e sprovvista di coordinate spirituali di riferimento. Con grazia, appunto. La stessa di cui la sceneggiatura difetta drasticamente. Nicholls, infatti, si limita a inanellare gli aneddoti più sfiziosi imponendo un’indecorosa accelerazione agli eventi. I personaggi, ingabbiati nel poco spazio loro concesso, non fanno che aggiornarci sull’età che hanno e ricapitolarci ciò che è accaduto loro nell’ultimo anno. Già sullo script, One Day è una rom-com didascalica e scontata. Lone Scherfig che, probabilmente, credeva di dirigere una commedia sexy in un giorno di mezza estate, completa l’opera con una regia diligente priva di qualsiasi ambizione sperimentale, consegnadoci un film del quale non si avvertiva proprio l’esigenza.

Il riciclo di materiali già usati rende inevitabili occhiate retrospettive che non giovano al film. Le punzecchiature reciproche tra i protagonisti o tra Em e Ian, un compagno passeggero, ricordano alla lontana le fulgide pellicole sulla guerra tra i sessi datate alla Golden Age hollywoodiana, quando a scrivere i copioni erano Ruth Gordon e Garson Kanin e a dirigere, magari, George Cukor. Alla lontana, perché i battibecchi dei nostri non trascendono un livello da piccolo schermo. Film di gran lunga migliori, d’altra parte, hanno saputo rappresentare, con una dose maggiore di vetriolo, il mondo della televisione spazzatura, transitoria occupazione di Dex, e la fauna abominevole che lo abita. Alterne fortune sono anche quelle del cast. Anne Hathaway salva con un po’ di sornioneria la sua Emma, mentre Jim Sturgess, che ringiovanisce d’aspetto con l’andar del tempo salvo ritrovarsi, in extremis, grigio di capelli, smarrisce in troppe moine e smancerie la vanesia fragilità di Dexter. Non può che deludere, infine, l’impiego così marginale di un’attrice straordinaria come Patricia Clarkson. Non è campanilismo ma molto meglio ha lavorato, su un tema simile, il nostro Valerio Mieli in Dieci inverni. Con una battuta fin troppo facile, potremmo consigliare alla Scherfig un corso di italiano per principianti.

Curiosità
Anne Hathaway ha dichiarato al tabloid canadese Toronto Sun di aver abbattuto il muro di diffidenza di Lone Scherfig rispetto a un’attrice statunitense nel ruolo di Emma consegnando alla regista una lista di canzoni che “parlassero” in sua vece.

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