hideout

cultura dell'immagine e della parola

Warrior: Brothers in Arms

Brothers in Arms

I gladiatori del XXI secolo vestono i panni di due uomini uniti da un legame di sangue, ma separati dalla distanza, come ben dice la canzone di chiusura di The National, About Today. Sono eroi e anti-eroi insieme, uomini comuni e straordinari allo stesso tempo, deboli eppure ostinati, caparbi. Si scontrano in una gabbia, quella della memoria, quella dei doveri e quella fisica del torneo Sparta (nome di fantasia con cui nel film si indica la competizione per eccellenza di Mixed Martial Arts, MMA); diventano protagonisti di un combattimento full contact che unisce la violenza della boxe alla razionalità di karate e judo, la stravaganza e la spettacolarità del wrestling alla tecnica e all’agilità della kick-boxing. Tutto nell’ottica di aggiudicarsi i cinque milioni di dollari in palio utili a riscattare le proprie sorti: il fratello maggiore Brendan per salvare la casa che verrebbe altrimenti pignorata; il fratello minore Tommy per devolvere il premio a una vedova di guerra, in modo da espiare un infondato senso di colpa per la morte del marito, suo commilitone.

Poche le parole nel film, asciutti e ficcanti i dialoghi. Il sottotesto è ricco e potente – basti pensare ai vividi parallelismi evocati da Moby Dick di Herman Melville, di cui il padre dei protagonisti è solito ascoltare la storia audio-narrata. Proprio nella carenza di dialoghi, che mimano quanto più possibile il reale quotidiano, va ricercata la complessità di questo film duro e commovente, che scava nella psicologia dei personaggi in linea con Pride and Glory, altro lungometraggio forse troppo sottovalutato di O’Connor (di cui per altro il regista recupera il rapporto tra fratelli – di sangue o acquisiti che siano). E quanto più la comunicazione tra i protagonisti viene meno per le lontane, ma ricorrenti memorie di un’infanzia non vissuta, tanto più acquistano pregnanza frasi come: “Ferma la nave!”, che il padre in preda ai fumi dell’alcol pronuncia urlando (straordinaria la sequenza) nei confronti del figlio Tommy. Un figlio che sembra votato a una vendetta e a un auto-castigo angoscianti e insensati contro un passato che non riesce a cancellare e un avvenire di cui ha perso la rotta. Tommy come novello Achab, il capitano che combatte la balena, accecato da una rabbia vuota che nuocerà a sè stesso, ma si ripercuoterà su tutto l’equipaggio della Pequod, la baleniera di Moby Dick. La gabbia intorno al ring su cui competono i concorrenti di Sparta diventa, perciò, simbolicamente, la nave di Achab, ma anche la prigione in cui Tommy è costretto per l’incapacità di dimenticare e perdonare. Il film poggia su interpretazioni di grande spessore, valorizzate da personaggi a tutto tondo, di cui Nick Nolte, Tom Hardy e Joel Edgerton riescono a trasferire al pubblico i punti di debolezza e di forza, in un intreccio di rapporti in cui il padre cerca di recuperare la fiducia dei figli e questi, a loro volta, cercano l’approvazione del padre (Brendan) e la rivalutazione di una figura paterna mancate durante l’adolescenza (Tommy). Il rapporto tra fratelli riprende una formula archetipica di contrapposizione tra il lato istintivo, passionale e ribelle, che non porta rispetto per le regole, proprio in quanto convenzionalmente condivise (vedi il disprezzo di Tommy per il regolamento di Sparta e il suo giocarsi il tutto per tutto in modo ostinatamente irrazionale), e il lato più razionale, più equilibrato (Brendan è professore di fisica, si allena ascoltando Beethoven e lotta sul ring per amore della famiglia). È la contrapposizione tra eroe e anti-eroe, tra uomo straordinario (Tommy ha salvato dalla morte certa alcuni militari in Iraq, senza pretendere riconoscimenti) e uomo ordinario (Brendan), definito addirittura, dai telecronisti del torneo, “vittima predestinata”. Sarà, quindi, stupefacente vedere gli stessi ruoli inaspettatamente ribaltati (come già era successo in Pride and Glory), quando l’eroe, che si trova sull’orlo del precipizio, verrà salvato in extremis dal buon senso e dalla bontà dell’uomo comune. La dicotomia tra il giusto e lo sbagliato, che si confondono in un intreccio difficile da districare, impera sulla storia, come in altri film di O’Connor. Le scelte registiche riflettono extradiegeticamente le personalità dei protagonisti, con la predilezione per le inquadrature sporche, ad esempio nei campo-controcampo dei dialoghi e nelle molte riprese con camera a mano. Le fasi di allenamento di Tommy e Brendan sono rappresentate non, come ci si attenderebbe, attraverso un montaggio alternato, bensì attraverso picture in picture poco cinematografici, ma coerenti con le finalità della pellicola, che risiedono più nell’analisi psicologica di due diversi caratteri, che nella rappresentazione pura dell’azione. Il combattimento finale è costruito, come da manuale, alternando le mosse degli atleti con le reazioni del pubblico: da una parte il padre dei protagonisti, il preside di Brendan e i suoi alunni, sua moglie; dall’altra i militari di stanza in Iraq e la palestra in cui Tommy si allenava.

Una peculiarità della pellicola è quella di dare ampio spazio al ruolo della televisione nella società attuale. I servizi televisivi sono fortemente presenti in forma di tg (breaking news, in particolare) e tv verità. Ad essi è affidata la funzione di “messaggero” nell’economia della storia: è, infatti, attraverso essi che i protagonisti, ma anche lo spettatore, vengono a conoscenza, ad esempio, dei retroscena della vita di Tommy in Iraq o del fatto che i due contendenti il titolo di vincitore di Sparta siano fratelli. Insomma, dietro al prodotto finito traspare una spasmodica attenzione al dettaglio: un lavoro tanto preciso e azzeccato che fa di Warrior un film veramente degno di nota e riconferma un regista che ha già fatto bene in precedenza.

Curiosità
Nel film recita anche, nei panni di Koba, l’avversario per eccellenza al torneo Sparta, il wrestler e campione olimpionico di lotta libera (Atlanta, 1996) Kurt Angle.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»