Per un pugno di film
Venezia 68 – 4/09
Per un pugno di film ci trasformiamo in una simpatica accozzaglia di fan un po’ chiassosi, un po’ sbruffoni, un po’ sudati, ma padroni degli angolini più interessanti del Lido.E sì, basta sporgersi un po’ oltre la sala, oltre il film, e ti può capitare di fare una foto con Steve McQueen – gigante buono del cinema più stupefacente visto finora – o di incrociare gli occhi azzurri di Fassbender, stretto in un impeccabile abito nero, la pelle chiara, il sorriso da ragazzo che si è fatto due settimane in moto dalla Sicilia a Venezia.
Il cinema è anche questo, al Lido: uno scambio di sguardi di natura ultraterrena. E di scoperte e di visioni – reali o fatte di luce – che hanno la capacità di regalarti il più profondo piacere insieme al dolore più nero.
Shame di McQeen è così: duro, silenzioso, tesissimo. Uno sguardo fisso, etico, che non vuole violentare la realtà, ma farla emergere, esaltarla nel suo dramma. Hunger, il primo e disperso film dell’artista inglese era senza scampo, lucido e sorprendente, tanto quanto il suo protagonista, Michael Fassbender, totalmente immolato al personaggio di Bobby Sands. Una storia politica, la storia di una scelta morale, etica, sociale. Una decisione della mente che programma di condurre il corpo al disfacimento, lento, inevitabile, del singolo per la salvezza collettiva.
Shame ha provocato un’altra vertigine, un’impressionante sprofondo nella dissoluzione di ogni bussola morale attraverso l’abuso della sessualità. Bobby e Brandon: sparito, evaporato il corpo del primo per un’idea portata all’estremo confine, usato fino a svuotarsi quello del secondo, osservato con severità dalla macchina di McQueen, uno sguardo che trascende in un realismo privo di giudizi. Ma abbastanza lucido da far emergere una solitudine mostruosa, che devia, trasfigura, distorce, prima di tutto il corpo.
Se per Hunger l’aspirazione alla vita di Bobby è così alta da trasformarsi in un necessario bisogno di morte, per Brandon la pulsione all’annullamento (ma anche per Sissy, che reitera infinitamente il suo rituale di suicidio senza arrivare mai al parossismo della morte) è così totale da invadere la sua carne. Possedere fisicamente è l’unico modo per perdersi e uscire da se stessi, e condanna a rimanere continuamente sul ciglio della vita, avvicinandosi sempre un po’ di più alla morte.
La vita, come bellezza, e la morte come orrore: il corpo di Brandon oscilla continuamente tra questi due poli. Incarna la prestanza fisica e l’eleganza delle linee del corpo, che McQueen osserva da vicino, da dentro quasi, così attaccato alla pelle del suo attore da sezionarlo in frammenti di carne senza un volto; una prossimità che in modo nauseabondo diventa abiezione, raccontata in sequenze spersonalizzanti e così realistiche da far sconfinare la fiction nella rappresentazione pornografica (l’erezione dentro i pantaloni di Brandon/Fassbender è “vera” e visibile in una narrazione di fiction, “vera” ma nascosta-inutile in una costruzione pornografica: in entrambi in casi dunque è segno di un’anomalia nella costruzione filmica e un elemento allarmante, deviante).
E come l’attesa della fine è sempre posticipata, tanto da lasciare esangue e disperato Brandon, così anche Shame langue in un disperato tentativo di raggiungere una conclusione che sia appagante, lineare, definitiva. McQueen non ci concede questo piacere e scrive due, tre conclusioni, allungando la pena fino a tornare all’inizio. Un eterno ritorno, un cerchio da cui, è dichiarato, nè noi nè Brandon potrà mai uscire.
A cura di Francesca Bertazzoni
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