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Four Lions: Leone di tritolo

Leone di tritolo

Può una pellicola riuscire a (s)drammatizzare il terrorismo fino a prendersi gioco della Jihad? Ci ha provato Christopher Morris, scrittore e comico inglese, autore di un film molto esilarante e cinico per certi versi, che ha la forza satirica di mettere in dubbio dogmi e rituali lasciando allo spettatore la libertà dell’ultima riflessione.

La storia è quella di quattro ragazzi musulmani decisi a tutto nell’immolarsi per la causa, cercando di inventarsi “martiri fai da te”: ci sono Waj e Faisal, eccentrici e decisamente sopra le righe, Omar, il più “equilibrato” e serio, sposato con moglie (vestita all’occidentale) e un figlio appassionato di classici Disney, e infine Barry, in apparenza il più fondamentalista del gruppo, ma in realtà convertitosi allo stile occidentale. Per riscattarsi socialmente da un’esistenza forse troppo banale e per essere finalmente considerati all’altezza dal Sistema, decidono di prepararsi al meglio (o al peggio, secondo i punti di vista) per l’obiettivo finale, quello di una serie di attentati terroristici proprio nel cuore della capitale, Londra. In una micro Guerra Santa artigianale, girano video (semi-seri) di rivendicazione e propaganda in stile Al Qaeda da diffondere in rete (con armi giocattolo e sottofondo di musica rap), simulano di parlare da una grotta quando in realtà sono nel salotto di casa, cercando di pianificare tutto, dalla sim del telefonino (qualcuno invece che farla sparire mangiandola la vorrebbe cuocere) alla ricerca degli esplosivi, fino al reclutamento in un campo di addestramento in Pakistan, che per due di loro si rivelerà un totale fallimento. Il finale (agghiacciante) in maschera durante la maratona di Londra poi è imperdibile.

Chris Morris, alla sua opera prima dietro la macchina da presa, fa decisamente centro, non solo per l’intuizione geniale di decidere di trattare in maniera leggera un tema in realtà così drammatico e serio come quello del terrorismo, ma anche per l’ottimo lavoro di sceneggiatura, ricco di battute, gag, ritmo, con cambi improvvisi di registri e generi, che rendono la storia appassionante durante tutta la narrazione. Il suo obiettivo non è solo quello di focalizzarsi su un ambiente e prendersene gioco, ma è di far riflettere a suo modo sull’assurdità di certi meccanismi, tutt’oggi pienamente operativi, ma che hanno radici prive di fondamento. Grazie a lui si torna a respirare lo humour di Blake Edwards e Peter Sellers, molto della commedia inglese legata all’improvvisazione (Full Monty su tutti) ed esattamente come già visto in The Infidel di Josh Appignanesi, si gioca con la vita umana, dissacrandola, scherzando apertamente e liberamente con i propri attori (tutti molto bravi), ma soprattutto con lo spettatore, giudice finale di una storia per niente banale e più che mai attuale.

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