Tornate indietro, quando potete
Vedete: un uomo sta viaggiando su un treno; si sveglia all’improvviso in un corpo che non gli appartiene, quello di un uomo che si chiama Shawn, insegnante di storia; lui, invece, si chiama Colter Stevens (Jake Gyllenhaal), capitano Colter Stevens, pilota di elicotteri in Afghanistan; guarda negli occhi una giovane donna (Christina, Michelle Monaghan), dai modi gentili, affascinante e un poco ammiccante che gli sorride; incrocia gli sguardi dei passeggeri, cerca di capire perché si trova sul quel treno; scappa in bagno confuso, spaventato; comincia ad agitarsi; si guarda allo specchio e non si riconosce: l’immagine riflessa non gli appartiene; poi un’esplosione. Sono trascorsi otto minuti. Il treno su cui viaggiava è scoppiato alle porte di Chicago, ma Colter Stevens si risveglia in una misteriosa capsula. Apprende da una donna in uniforme (Goodwin, Vera Farmiga), che comunica con lui attraverso un monitor, che si ritrova nel bel mezzo di un esperimento militare top secret, un sofisticato programma di intelligence che lo porterebbe a scoprire il colpevole dell’attentato al treno diretto a Chicago; in soli otto minuti Colter deve raccogliere stralci di prove. È lui il soggetto prescelto per dare vita al Source Code. Sono molti gli spunti interessanti rintracciabili in questo secondo lungometraggio di Duncan Jones, figlio di David Bowie con la passione per il cinema, la filosofia e la pubblicità, a cominciare dalla scelta dei luoghi per il set della finzione cinematografica: il treno e la pseudo-capsula militare.
Come in Moon, esordio folgorante del 2009, film in cui la vicenda prima che svolgersi sulla Luna, era confinata all’interno di una stazione spaziale, anche in Source Code sono privilegiati gli spazi chiusi. Ed è evidente che a Jones gli spazi chiusi piacciano un sacco perché questi rappresentano l’origine di un’esplorazione affascinante, una condizione di partenza per l’essere umano da cui, progressivamente, proverà a liberarsi. I luoghi chiusi e la posizione di apparente staticità dell’uomo sono il terreno su cui il film di Jones prende forma. Una forma ibrida che si allontana in fretta dal genere cinematografico di riferimento (la fantascienza) e dal tema di riferimento (i viaggi nel tempo e la teoria della relatività) per condurre lo spettatore in un film molto movimentato. Le inquadrature aeree dell’incipit svelano un indizio decisivo per comprendere il dinamismo del film: lo sguardo dello spettatore coincide con qualcosa d’altro perché sta entrando dall’alto, sorvola il paesaggio, s’immerge nel vagone del treno, in una storia paradossale e pure in una nuova vita reale (quella del professore di storia e di rimando, in quella di Christina). L’occhio dello spettatore, quindi, si con-fonde con l’occhio di Colter perché condivide gli spazi e i tempi di Colter (fino ad un certo punto del film, spettatore e personaggio condivideranno lo stesso numero di informazioni). Sia il treno, sia la pseudo-capsula militare veicolano, inoltre, le coordinate temporali del film: sappiamo che sul treno trascorreremo al massimo otto minuti e sappiamo che, proprio come Colter, dalla capsula dovremo uscire per tornare a viaggiare sul treno, conoscere Christina, dialogare con gli altri passeggeri, disinnescare la bomba, trovare l’attentatore. Fermi, dentro un vagone, ma in movimento. Soprattutto col pensiero. E il pensiero è un altro tratto distintivo del cinema di Jones perché si pone come alternativa alla routine della staticità. In Source Code, dal punto di vista narrativo, accade quelle che era accaduto in Moon: un uomo è intrappolato in un sistema più grande e più forte di lui. Qui, come in lì, è l’uomo a prendere in mano la realtà e a mandare all’aria gli schematismi della scienza grazie alla sua esigenza di risolvere problemi e farsi domande.
Il cinema di Jones, apparentemente desolante, si tinge allora di speranza perché sembra suggerire che il pensiero dell’uomo possa ancora prevalere sul caos generato da quella parte di umanità che ha dimenticato il valore dell’umanità. Colter Stevens, grazie al suo desiderio di capire, riuscirà a riconsegnare al tempo e allo spazio quell’ordine che avevano perso, rimodellando in termini più ampi il senso dell’esistere, affidando ai sentimenti il significato dei ricordi e il valore della memoria. Come conferma malinconicamente la telefonata al padre (in Moon era la videochiamata alla figlia) e come conferma anche il legame con Goodwin (in Moon era Gerty) e, più teneramente, con Christina (in Moon si trattava della moglie Eve). Source Code, quindi, nonostante sbrodoli di melò nel finale (proprio dove, invece, avrebbe dovuto dare la stoccata definitiva), regge molto bene la sfida e non può essere certamente archiviato come un leggero o futile blockbuster. Anzi. Oltre a riferimenti ed echi nostalgici di tanta cinematografia (e tv) che ha esplorato il viaggio nel tempo o la cancellazione della memoria e dei ricordi (si passa da Inception a Donnie Darko e Eternal Sunshine of the Spotlless Mind fino a Ricomincio da capo, 50 volte il primo bacio e Lost), non si può negare che il film possieda una certa originalità (perché non trarne spunto per un nuovo serial tv?) generata da un percorso e da uno sforzo autoriale di tutto rispetto (anche se all’arrivo di Jones, script e attore erano già stati scelti). Certo, se poi si vuole guardare il film per risolvere questioni di fisica quantistica, allora è un altro discorso. Ma anche lì il film non fa brutta figura.
Curiosità
Costato 5 milioni di dollari, negli Usa il film ne ha incassati 15 solo nel primo week end di proiezione.
A cura di Matteo Mazza
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