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Sul cocuzzolo della montagna

Sul cocuzzolo della montagna

I thriller claustrofobici sono un po’ come una scatola di cioccolatini: non sai mai cosa cosa ti capita. Esauriti gli ascensori (Blackout), le carlinghe degli aerei (Altitude), le bare (Buried) e pure il mare aperto (Open Waters), rimane forse solo una seggiovia sul cocuzzolo della montagna nella quale qualcuno ha dimenticato per una settimana tre studenti che si trovano bloccati a 15 metri d’altezza dal suolo. Eppure, nonostante i deja vù del genere, diciamo subito che Frozen si salva. Perché sa spaventare (senza sfociare nel grottesco di alcuni suoi predecessori), perché non ha pretese sociologiche e non ultimo perché il regista Adam Green è uno che non ha sbagliato un (teen) horror che sia uno. E si vede.

La scelta di mantenere fin dalla produzione un alto coefficiente di realismo è la vera carta vincente del film. Green ha infatti rifiutato ogni soluzione che semplificasse e sintetizzasse l’atmosfera di Frozen. Nessun teatro di posa, nessun effetto speciale: gli attori e la troupe hanno girato l’intero film a 15 metri d’altezza fra vere e raggelanti sterzate di freddo e di neve. Unite dunque l’influenza sull’interpretazione attoriale di una simile location alla bravura di attrici come Emma Bell (già vista in The Walking Dead) e avrete luna narrazione che, oltre a diventare “epica”, rende l’intera pellicola reale e palpabile, inevitabilmente immersiva e coinvolgente. Questa materialità quasi documentaristica si contamina deliziosamente con il minimalismo della messa in scena, la gestione perfetta di spazi e tempi, i piani sui dettagli e sui particolari dell’ibernazione a cui vanno incontro i protagonisti. Presto Green riesce a far precipitare lo spettatore in una sorta di “limbo dell’orrore”, sospeso tragicamente su quella seggiovia che non può più né scendere né salire in una immobilità dei corpi che ferma lo spazio ma anche il tempo. Dagli orizzonti sereni di un’attualissima vacanza sulla neve si ritorna anzi a paure primordiali, primitive, come la sopravvivenza al freddo o la lotta arcaica contro i “lupi cattivi”.

Resta forse una mancata capacità di stravolgere una struttura troppo rigida fin dal suo inizio, con una carrellata prevedibile nella presentazione dei personaggi e con le loro caratteristiche stereotipate all’eccesso. Ma l’obiettivo di Green qui sembra un altro: rispetto a lavorare sui personaggi e sui dialoghi, Green cerca di far parlare la messa in scena, di alleggerire le immagini, impreziosirle di intimità, ripulirle da ogni tipo di deriva sanguinolenta, come volesse prendere le distanze dall’universo splatter che lo ha reso famoso (Hatchet su tutti). E’ un tentativo che va premiato perché alla fine Frozen saprà spaventare senza esplicitare l’oggetto della paura e saprà angosciare senza truculenti trovate slasher. E questo è forse l’obiettivo più ambizioso per un film del genere.

Curiosità
L’idea di Frozen ad Adam Green è venuta guardando una diretta video della stazione sciistica di Big Bear, durante un notiziario locale di Los Angeles. Alle sette del mattino la località non era ancora operativa e le sedie della seggiovia pendevano solitarie nel vuoto.

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