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La verità da scavare

La verità da scavare

Un anno. Quattro stagioni scandite dal tempo che passa, dai weekend che si rincorrono, dalla pioggia, dal sole, dalle lacrime e dai sorrisi. Dalle nuvole e dal vuoto. La terra da coltivare e i sentimenti da ri-trovare. Qualcuno sa dove cercare la felicità, qualcun altro si è perso e ha smesso.
Another Year, cioè un altro anno. Sì, certo, un film sul tempo che passa allo scoccare del giorno successivo. Ma anche, e soprattutto, un film sull’altro. Su chi ci sta intorno, su chi frequentiamo, su chi incrociamo per sbaglio, su chi cerchiamo di conquistare e non lo facciamo per sbaglio. Un film sull’altro che viene catturato dal nostro fascino, ammorbidito dal nostro sguardo, convinto a non essere troppo duro con sé stesso perché già duro abbastanza. Un film sull’altro che si sente abbandonato, solo, sconfitto, in preda al panico e alla rabbia, che cerca conforto per evadere dalla tristezza della sua vita oppure che evade e fugge nella tristezza per superare il male che tiene dentro da una vita intera. Ma anche un film sull’altra faccia della medaglia, quella felice, raccontata con lo sguardo di chi sa cosa raccontare, cosa mettere in scena, come gestire gli spazi, quanto insistere con la musica, come muovere la macchina da presa. Per raccontare la felicità di chi ama e si sente amato, di chi ha trovato il suo posto nella vita, di chi spera che prima o poi lo troverà al fianco di qualcun altro, di chi si prende cura e ha capito che dal bene nasce il meglio.

Un film vero, puro, sporco di terra ma anche di ripicche, pulito dalle parole che rincuorano, consolano o fanno incazzare, che lasciano stecchiti a terra o che dalla terra ti fanno rinascere. Un film che racconta, mostra e fa sentire cos’è il peso sullo stomaco, la puzza di sigaretta, l’alito alcolico, il vestito umido, gli arredi confort, le sedie scomode, le grigliate, le occasioni, le indecisioni, le paure, gli sbandamenti e gli sbandati. E gli altri, quelli che sono dritti, anche se affaticati, un po’ malconci ma ancora in strada. Un film sul prendersi cura. Come fa anche Mike Leigh che responsabilmente si prende cura dello spettatore. Si preoccupa, cioè, che la visione diventi esperienza concreta e che non resti una tra tante, che vada oltre, nel profondo. Another Year è un film sull’oltre. Quel limite da non oltrepassare del buon senso o dell’intimità; l’ostacolo/spettacolo, vero e duro, che la vita può offrire. Come nell’inquadratura finale, quando Mary è lasciata sola, in un silenzio pesante, col suo sguardo assente, il suo corpo distante.

La forza narrativa che esplode dalla sceneggiatura conduce di fronte a un realismo impressionante, commovente, scandaloso e antispettacolare. Eppure lo spettacolo c’è e si vede. Nascosto dietro le rughe, gli occhi rimpiccioliti, i sorrisi accoglienti, le bevute, le mangiate. Una tensione profonda in grado di trasformare la noia, la ripetitività in qualcosa di interessante. Le vicende di Gerry (Ruth Sheen) e Tom (Jim Broadbent), alle prese con gioie e dolori relazionali – dal figlio in cerca d’amore (Oliver Maltman), alla collega frustrata, sfortunata e infelice (Lesley Manville), fino all’amico di gioventù rimasto solo (Peter Wight) – sono talmente credibili da sembrare incredibili, pur mostrando i lati più scottanti, le pieghe più fredde, i sentimenti più profondi e le emozioni più apparenti. E se Another Year commuove, sconvolge, turba è proprio per questo motivo: è vero.

Curiosità
Menzione della Giuria ecumenica al Festival di Cannes 2010. A proposito del contesto sociale in cui è ambientato il film, Mike Leigh ha dichiarato: «Vengo dal proletariato. Mi sono occasionalmente avventurato nell’alta società ma mi è abbastanza estranea. La classe operaia è il mio universo naturale. Come regista, visto che non realizzo film autobiografici, ho la responsabilità di osservare il mondo, di imparare e di mostrare le persone che lo abitano. Se sono della classe media, il “mio mondo” parlerà di loro. Nel film il fratello di Tom è un vero proletario come lo era Tom. L’accento di Gerri tradisce la sua origine operaia. Ma ormai sono diventati classe media. Per rispondere alla domanda, più che di fedeltà ad un mondo parlerei di fiducia nello “specchio del mondo”, in senso shakespeariano. Il mondo in cui viviamo».

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