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Un vento fatto di morte

Un vento fatto di morte

Probabilmente è riduttivo delimitare Vento di primavera nella numerosa schiera dei film sull’Olocausto. Da una parte c’è il lavoro meticoloso e documentaristico della regista nel rappresentare i fatti storici nella loro totale integrità, frutto di dieci anni di ricerca storica e di “nove ore al giorno di studio negli ultimi tre anni” per scriverne la sceneggiatura. Nulla è lasciato al caso: anche il velodromo in cui vennero segregati i deportati è stato fedelmente ricostruito a Budapest in ogni suo minimo particolare.

Dall’altra, come aveva già operato Costa-Gavras, con il suo potente Amen. la Bosch decostruisce la rappresentazione universale dell’Olocausto attraverso l’intima storia privata del bambino Joseph, uno dei pochi superstiti della “retata” di Parigi (La rafle, appunto), testimone e punto di vista assoluto dell’intero film. Accanto alla vicenda del bambino si muovono altre due narrazioni ben precise, che ne fanno quasi da contro-campo: da una parte i colloqui di Pétain con il suo primo ministro Laval, impegnati in un continuo assecondare le richieste dei nazisti, e dall’altra gli incontri di Hitler con Himmler che discutono pacatamente sulla pianificazione dello sterminio in atto, mentre giocano con gli stessi bambini del Furher. Eppure la Bosch non sembra voler solo raccontare l’orrore, ma quello che in qualche modo gli ruota attorno con complicità: tutto ciò che ha reso possibile la deportazione di francesi da parte di altri francesi. In questo senso il film della Bosch irrompe con prepotenza nei residui “minimalistici” che permeavano la società francese fino a poco tempo fa, e che ritenevano la deportazione di ebrei in Francia come una “verità” non necessaria, scomoda, da archiviare con vergogna ed ipocrisia. In questo modo l’urto con la storia nuda e cruda è ancora più traumatico. Nessuno può riconoscere nella Parigi di Vento di primavera la città romantica e poetica che domina l’immaginario collettivo. Montmartre perde i connotati della poesia ed assume quelli dell’orrore (con i francesi autoctoni che offendono gli ebrei deportati in colonna per le strade). Perfino la Tour Eiffel, simbolo della bellezza eterna ed invincibile appare per qualche istante, ma è quasi irriconoscibile sprofondata nella fotografia cupa ed inquietante di David Ungaro. Per questo Vento di primavera rimane un documento prezioso ed unico, al di là di ogni giudizio estetico o tecnico.

Tutto si chiuderà con una nota di speranza, ma anche con un sottile monito per il futuro. Dall’altra parte la Francia, destituita dal suo ruolo di nazione civile trova nel dottor Sheinbaum (interpretato da un Jean Reno atipicamente disarmato e pacato) un suo modo per indignarsi di fronte all’ingiustizia: “Non avete il diritto!” griderà ai carcerieri degli ebrei deportati. In questo senso si percepisce anche un’attualizzazione ancora più decisa (e certo rischiosa) del tema, che cerca inserirsi nel dibattito, sempre all’ordine del giorno in Francia, sulla gestione dell’immigrazione extracomunitaria nel paese. Tanto che c’è chi ha già visto nel velodromo/ghetto di Vento di Primavera un più attuale Centro di Detenzione Temporanea per immigrati clandestini. Forse così non è, ma la Bosch, questo dubbio, ce lo fa venire.

Curiosità
Nel settembre 2010, in occasione della campagna di promozione del DVD di Vento di primavera la regista Bosch in un’intervista alla rivista Les Années Laser tracciò un parallelo tra coloro che non avevano gradito il suo film e Adolf Hitler: “In ogni caso, se dovesse esserci una guerra, non vorrei essere dalla stessa parte di chi trova che ci siano troppi sentimentalismi in Vento di primavera”.

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