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Adolescenti ad vitam

Adolescenti ad vitam

La commedia è un’arma a doppio taglio: una risata forzata o una risata sommessa possono da sole decretarne il fallimento. Parto col folle, il nuovo film del Todd Phillips, già conosciuto e apprezzato per il primo Una notte da leoni (di cui è in post-produzione il sequel), parte avvantaggiato, soprattutto sul lato spettatoriale: seduto comodo e fiducioso in poltrona, il pubblico é carico di aspettative e in trepidante attesa di scoppiare in scroscianti risate. Di fatto le risate non sono genuine al cento per cento. Le principali cause vanno ricercate in due fattori ben precisi: il riciclo di espedienti narrativi e comici già utilizzati in tutte o quasi le commedie di ultima generazione, da Phillips a Apatow (l’adolescenza ad vitam, gli spinelli, le ceneri del padre morto, la masturbazione, le false identità ecc.) e l’iperbolismo situazionale, che coincide, il più delle volte, con la messa in scena di comportamenti pazzoidi (di cui il “folle” del titolo è l’attante), tra l’altro presi a prestito, sembrerebbe, dal manuale dell’anarchico sociopatico che sovverte le regole comuni del buon senso (anche e soprattutto alla guida di veicoli). Un film, quindi, sicuramente decostruttivo e antieducativo, pur nella surreale comicità dei suoi siparietti.

Il film appare ben costruito a livello epidermico, con due chiare desire line: per Peter, lo scopo è raggiungere la moglie incinta a Los Angeles in tempo per vedere nascere il primogenito; per Ethan l’obiettivo del viaggio è arrivare a Hollywood per incontrarsi con un agente cinematografico. Ciò in cui la pellicola si perde è, invece, da ricercare nella caratterizzazione dei personaggi, il cui arco di sviluppo è nullo o troppo repentino per essere facilmente digerito da uno spettatore attento. Così vediamo i sentimenti di Peter nei confronti del folle Ethan, di cui accetta il passaggio in auto, trasformarsi improvvisamente dal ribrezzo alle manifestazioni di affetto e riconoscenza, in seguito all’assunzione di droghe varie. E non serve bluffare più avanti, quando scoppia un ultimo, sterile litigio tra i due. Anche il moral need (la ricerca interiore) del protagonista Peter, interpretato da un Robert Downey Jr. in splendida forma, non è poi così chiaro come appare invece essere all’inizio del film, quando emerge l’onestà, la ragionevolezza e la rigida osservanza delle regole da parte dell’architetto dal fare elegantemente e ossessivamente professionale, nel lavoro, come pure nella vita privata. Questo comportamento, per quanto a volte esagerato, farà pendere l’ago della bilancia dell’empatia a favore del personaggio di Peter, più simile allo spettatore e, proprio per questo, poco “comico”. E ciò in misura tanto più grande quanto più il co-protagonista Ethan, nelle forme e nel volto del comico emergente Zach Galifianakis, si dimostra un totale anarcoide irresponsabile che non dimostra segni evidenti di maturazione e crescita interiore. Come bene attesta la scena conclusiva, in cui Ethan recita a fianco dei protagonisti della sit-com Due uomini e mezzo, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio” – concetto che fa trapelare l’immagine di un personaggio fondamentalmente triste, perché privo di scopi profondi nella vita.

Due uomini e mezzo ci permette, inoltre, di allacciarci ad un altro grosso difetto delle commedie del filone sui “quarantenni immaturi”: l’ostentata autoreferenzialità nei confronti del mondo dello spettacolo. Ne abbiamo già avuto dimostrazione in Funny People di Judd Apatow e ne troviamo ulteriore conferma in Parto col folle, quasi un “Hollywood for Dummies” che dice della difficoltà di entrare nel giro televisivo e cinematografico, della stramberia eccentrica dei would-be actors e di come il cinema e la tv siano diventati pane quotidiano digeribile in qualsiasi salsa (vedi l’interpretazione di Zach Galifianakis del Padrino Don Vito Corleone – Marlon Brando). Ciò che emerge è un gioco di specchi e scatole cinesi in cui la realtà che è rappresentata dall’audiovisivo sostituisce il reale stesso, ne diventa un surrogato e vive di vita propria. Todd Phillips ci aveva regalato comicità surreale allo stato puro con Una notte da leoni. Con Parto col folle, invece, sembra volerci dare una lezione di stile e di morale hollywoodiana, che cozza con la risata spontanea generata dalla commedia genuina. Il suo è un prodotto derivativo, che sfrutta gli elementi del buddy movie intrecciati a quelli del road movie per trasmettere, nemmeno troppo velatamente, un proprio punto di vista; detto in altri termini, per guidare furbescamente lo spettatore fino a fargli perdere il senso della scoperta, del divertimento e della novità.

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