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cultura dell'immagine e della parola

Barney ha perso le parole

Chi si è lasciato piacevolmente travolgere dalla voce di Barney che fuoriusciva dalle pagine del best seller di Mordecai Richler proverà un certo sconforto di fronte a questo suo alter ego su grande schermo. Il lettore – che con quest’eccentrico personaggio accusato di omicidio s’era tanto divertito a sparlare dei suoi amici, a elaborare teorie complottistiche, ad adirarsi col mondo o a sbeffeggiarlo – era già pronto a strizzargli l’occhiolino dalla poltrona del cinema a ogni frecciatina e a ridacchiare con lui come se si trattasse di un vecchio amico. Invece, sorpresa: s’è trovato di fronte un uomo che non conosceva. Innanzitutto tra le poliedriche facce del protagonista è stata privilegiata quella romantica, a discapito di tutte le altre. In secondo luogo la scelta registica, per altro condivisibile, di evitare la voce fuori campo ne riduce notevolmente le potenzialità narrative-aneddotiche di quello che sembrava un flusso di (in)coscienza. Quel che resta, perciò, è un Barney muto.

Nel libro di Richler, il personaggio principale è l’IO narrante per eccellenza: un protagonista assoluto e indiscusso della sua vita. Al contrario, finisce per essere smagrito dalla versione cinematografica: privato della sua potenza pericolosa ed esplosiva, ridimensionato, normalizzato. Il film di Richard J. Lewis piacerà sicuramente di più a chi non è tremendamente affezionato alla versione originale, anche se il Barney di Giamatti resta comunque un uomo di grande fascino, capace di vivere ogni momento con estrema passione e ironia, abile nel cedere agli istinti e – proprio per questo – non certo un santo.

Lo stesso Richler aveva iniziato a confrontarsi con la sceneggiatura cinematografica, un lavoro decisamente complesso data l’overdose di parole e pensieri che compongono un testo in cui – oltretutto – passato e presente si avvicendano e talvolta si accavallano rincorrendosi senza tregua. Ma la precoce morte dello scrittore non gli ha permesso di portare a termine l’opera di trasposizione. Dopo di lui altri tre sceneggiatori hanno messo mano all’opera, ma solo con Lewis si è arrivati alla conclusione del progetto, con un risparmio delle linee principali del racconto associato a un’imponente opera di ridimensionamento. Il regista avrebbe forse potuto provare a recuperare quella parte del personaggio che ha tralasciato arrischiandosi sulla strada dei monologhi. Sembra però un bene che non abbia ceduto alla tentazione: per quanto sia un peccato non potersi godere l’irrefrenabile e spudorata parlantina di Barney, il prodotto cinematografico risulta lineare e completo così che le due ore scorrono piacevolmente con buon ritmo. I dialoghi sono intensi e serrati, ma senza eccessi. Il cast è di alta qualità con un Dustin Hoffman inizialmente contattato per il ruolo del protagonista e poi ritenuto più adatto per quello del padre. La scusa ufficiale fornita per il cambio? Sarebbe stato troppo difficile ringiovanirlo e invecchiarlo adeguandolo ai flashback che costellano il film. Poco credibile, visto quello di cui sono oggi capaci i truccatori e gli addetti agli effetti speciali. Forse il regista ha preferito affidarsi alla carne di Paul Giamatti per compensare le parole cancellate nella trasposizione. Ci si sarebbe potuti aspettare un Barney più charmant, ma l’attore scelto ha in realtà la faccia perfetta: sorniona e ironica, supportata da quell’espressività che gli permette di comunicare con un’alzata di sopracciglio o con uno sbuffo, senza proferire verbo. Ogni sguardo che gli si rivolge è velato dal sospetto che nasconda qualcosa dietro a quello che dice o non dice. Qualcosa che chi ha avuto il piacere di leggere la sua versione cartacea può provare facilmente a indovinare.

La versione di Barney, romanzo di Mordecai Richler, 1997
La versione di Barney, regia di Richard J. Lewis, 2010

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