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Uno spietato romanzo criminale

Uno spietato romanzo criminale

“Io sono nato per fare il ladro”.
La frase, pronunciata in una scena del film da Renato Vallanzasca, potrebbe suonare come il manifesto del fatalismo tragico e menagramo a cui i gangster movie tradizionali ci hanno abituato, e veicolare il concetto di una predestinazione che boicotta qualsiasi tentativo di emancipazione dal male. Non fosse che di emanciparsi dal male uno come il bel Renè (prima e ultima concessione a un gergo giornalistico vieto) non ci ha pensato mai. Vallanzasca – Gli angeli del male non è Il PadrinoCarlito’s Way. È la storia di un manigoldo sadico e sbruffone, che con il denaro intrecciò una relazione bulimica e sanguinaria, conservandosi ostinatamente fedele alla sua missione. E benché ora lui stesso si professi pentito tanto da essersi sciolto in lacrime alla visione della pellicola, Michele Placido, confermandosi con questo nono lungometraggio uno dei cineasti migliori dei nostri anni, concentra proprio sulla fase culminante della lucida follia del boss della Comasina le energie emotive e intellettuali di una ricostruzione (e narrazione) mozzafiato.

Accantonato, senza compromessi, il lirismo dei suoi film più “caldi”, trattassero le passioni di un giovane, vulnerabile poeta o le utopie del Sessantotto, Placido, affiancato da una squadra composita di sceneggiatori, sulla base di un soggetto di Angelo Pasquini e Andrea Purgatori ispirato a sua volta a Il fiore del male (libro autobiografico scritto da Vallanzasca con il giornalista Carlo Bonini), ci trascina, lungo le vie di un imponente flashback, nel romanzo criminale di una compagine di individui pateticamente succubi del fascino perverso del loro dominus, prepotente e vanesio, non meno di quanto lo siano le molte donne ancor più pateticamente franate ai suoi piedi.

Da una regia concitata, vortice anaerobico di zoom, carrelli, campi-controcampi inarrestabili sulle note psichedeliche dei Negramaro, da una magnifica fotografia ispirata ai grigiori meneghini ma non dimentica delle tinte acide ed espressionistiche dei locali della movida, dagli spasmi di un montaggio convulso e da un approccio mai compiaciuto all’esibizione della (molta) violenza (più Scorsese che Leone), il personaggio del protagonista, a cui presta volto, ghigno e corpo (tutti e tre esemplarmente ferali) un Kim Rossi Stuart allampanato e luciferino come non mai, emerge in tutta la sua gratuita e ingiustificabile nequizia. Peccato per certi (veniali) cedimenti nervosi del copione, incoerenti con il resto: odora un po’ di melodramma la scena dell’esecuzione di Enzo (Filippo Timi), mentre troppa retorica si coagula nella sequenza della morte di Turatello (Francesco Scianna). L’indulgenza assolutoria, poi, nei confronti dei genitori, complici di una delle fughe di Renato, lascia perplessi. Eppure la potenza dell’insieme è in grado di indurci a sorvolare sull’episodico errore, e a rimpiangere che a Venezia il film non fosse in concorso.

Curiosità
Negli anni Settanta, Fernando di Leo accarezzò l’idea di girare un film su Vallanzasca. Propose a un giovane attore pugliese di interpretare il ruolo del bandito, ma l’attore, non ritenendosi all’altezza della parte, declinò. Il film, alla fine, non si fece. L’attore era Michele Placido.

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