Una realtà virtuale fashion, come lo studio di un designer
Nel primo Tron, film prodotto dalla Disney e girato nel 1982, Kevin Flynn era un geniale programmatore di videogames, materializzatosi (suo malgrado) nella realtà virtuale per recuperare la testimonianza di paternità delle sue creazioni, rubate dalla ENCOM; nel mentre, Flynn riusciva a sconfiggere il terribile Master Control Program, potente programma che dominava la realtà dietro lo schermo in una sorta di regime dittatoriale. La storia non era priva di ingenuità tipicamente disneyane, ma per l’impegno tecnico-grafico profuso, oltre che per essere stato il primo film sulla realtà virtuale, Tron è diventato col tempo un vero e proprio cult. A distanza di quasi trent’anni, con Tron Legacy sembra di vedere non già il sequel, bensì un film completamente diverso, tant’è che la trama è facilmente seguibile anche da coloro che non hanno mai visto il primo episodio. Kevin Flynn è scomparso, al suo posto troviamo suo figlio Sam, ragazzo solitario e sbandato il cui “passatempo” preferito è organizzare beffe ai danni della sua azienda, nonché azienda di suo padre, intrappolato in quella realtà virtuale da lui stesso creata. Quest’ultima è tornata a essere dominata da una dittatura paranazista, capitanata da Clu, programma creato da Kevin Flynn nel tentativo di fondare un mondo perfetto. Qui è necessario fermarsi e porsi una domanda: dove è finito il vecchio Kevin, il nerd appassionato di videogames, il programmatore scanzonato diventato salvatore del mondo cibernetico per caso, dato che precipitava in quel mondo per farsi gli affari suoi? non c’è più; d’altronde, quelli erano altri tempi, erano i rampanti e consumistici anni Ottanta. Oggi Kevin Flynn è un uomo maturo vestito come un guerriero jedi, abita un rifugio che sembra uscito dalle pagine patinate della rivista AD e cerca di riportare ordine in una situazione caotica da lui stesso causata per creare una realtà perfetta e armonica, utopia irrealizzabile anche nel mondo della rete ma da lui, e da Clu, presa sin troppo sul serio. La colpa di Clu, più che il tradimento, è quindi l’esser stato così ligio ai voleri del maestro da andare oltre il maestro stesso e tutti i creativi, elementi di disordine nella sua dittatura al neon, patinata e minimal chic come un moderno studio di design.
Se il primo Tron era un film nato per diventare oggetto di culto tra i videogamers dipendenti e gli amanti del genere fantascientifico, Tron Legacy sembra essere un film fatto per affascinare grafici e architetti, oltre che gli spettatori amanti del mirabolante spettacolo degli effetti speciali, delle corse in stile Fast and Furious, del vortice di immagini e musica in cui la storia, la trama, è qualcosa che non turba, facile e prevedibile scatola in cui sono inserite le meraviglie, con personaggi sciapiti e incolori, di cui sappiamo tutto perché nulla c’è da sapere e i cui gesti sono prevedibili prima ancora che vengano da loro compiuti. Non basta mettere la parola zen in bocca ad un ex zuzzurellone come Kevin Flynn o una teoria di vecchi tomi polverosi nella sua biblioteca per elevarlo al rango di grande saggio. Kevin Flynn, in quelle vesti da jedi, è la caricatura di un saggio perché, pur avendo combattuto il Master Control, ha commesso il suo stesso errore, ovvero credere in una perfezione virtuale importabile sulla Terra ma, in realtà, irrealizzabile in entrambi i contesti, come dimostra il genocidio delle ISO. Queste ultime, algoritmi isomorfi, sono il perfetto connubio tra reale e virtuale, artefatto e biologico ma, in quanto tali, disprezzate da chi, come Clu, la perfezione la vede come una realtà univoca e perfettamente artificiale, da plasmare con la forza delle armi: ciò che voleva fare il caro, vecchio Master Control, ma con una verve da cattivo che Clu non ha. Non è solo il Master l’unico personaggio di cui, in questo pseudo secondo capitolo, si sente la mancanza. Tron, il coraggioso programma che aiutava Flynn a portare a termine l’impresa, è qui un fantoccio nelle mani di Clu e si redime solo per cinque minuti, giusto il tempo di dare ai nostri “eroi” la possibilità di scappare, per poi morire ingloriosamente e stupidamente. Le moto disegnate da Syd Mead hanno assunto un design graffiante e stiloso che la tecnologia degli anni Ottanta non consentiva di rendere, ma tutti i veicoli, l’intera ambientazione (si pensi all’arena dei giochi, un gioiello di computer grafica e minimal art) hanno l’aspetto di prodotti che potrebbero essere pubblicizzati su una rivista di design contemporaneo (che, va detto, è l’ambiente di formazione del regista). Lo stesso party a casa di Castor, il momento in assoluto più ridicolo e noioso dell’intero film, sembra una festa post sfilata di moda, con modelle e stilisti e un Michael Sheen che paga il tributo della Disney al politically correct, offrendo al pubblico il gay moment d’obbligo.
Il primo Tron si accostava e ci accostava, affascinati e curiosi come bambini, al mondo della realtà virtuale. Tron Legacy ci mostra una virtualità di cui non ci stupiamo più, a cui siamo abituati, che ci affascina limitatamente alla durata del film per poi essere sostituita da un’altra ancora più spettacolare; una virtualità glamour progettata non da un programmatore di videogames bensì da un designer, che nella perfezione della grafica e nell’alta definizione dell’immagine fa rimpiangere la vecchia tutina fosforescente indossata da Kevin Flynn quando era ancora un eroe capace di non prendersi troppo sul serio.
A cura di Saba Ercole
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