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Un ponte tra tradizione e modernità, vita e morte

Un ponte tra tradizione e modernità, vita e morte

“Con i miei film non do risposte, pongo quesiti”: questo, su per giù, è ciò che da sempre sottolinea quell’ottantenne sui generis che è Clint Eastwood, regista che di cinema di qualità, negli ultimi tempi, ne ha regalato davvero in quantità agli spettatori. Con Hereafter viene confermata la sua proverbiale padronanza tecnico-formale e la grande abilità di storyteller, che intreccia, nel caso specifico, tre distinte parabole umane, delocalizzate tra Europa e Usa e tutte, alla fine, convergenti. Il film non è facilmente inquadrabile in un genere: la Warner Bros l’ha pubblicizzato come thriller soprannaturale; Clint Eastwood come “chick flick”, film strappalacrime, spirituale, senza essere religioso, e romantico; Matt Damon come il primo film francese del regista. In realtà nulla di tutto ciò potrebbe essere più sviante. Le tre storie che compongono il lungometraggio e che scorrono su binari fino a un certo punto paralleli costituiscono fondamentalmente tre drammi di vita quotidiana, declinata in tre protagonisti di estrazione sociale diversa: la francese Marie, bella e benestante giornalista tv, vive in una stanza d’albergo extra lusso; George, operaio californiano con poteri paranormali, abita in un modesto condominio; Marcus, ragazzino della periferia londinese, cresce in una casa popolare con la madre tossicodipendente e il fratello gemello Jason.

Si tratta di tre vite alla deriva, colte nel momento di crisi e accomunate dal rapporto esperito con la morte: Marie vive un’esperienza di morte “temporanea”; George con i morti comunica (e per lui questo non è un dono, ma una condanna); Marcus assiste alla morte del gemello in diretta telefonica. Le tre storie seguono le linee guida di tre filoni drammatici: Marie è protagonista di un’avventura extra-sensoriale e della lotta per renderla pubblica; George è l’anti-eroe di una trama di redenzione; Marcus il perno di una storia di formazione. Tre storie, tre generi, un montaggio parallelo che sfocia, alla fine, in un’unico e multisfaccettato confronto con la morte. È in questa struttura intrecciata che emerge la natura “europea” dell’ultimo lavoro di Eastwood, un film d’autore senza pedanteria che non si astrae dalla vita, ma utilizza gli strumenti della tradizione cinematografica hollywoodiana e l’intimismo caro all’ultimo Eastwood per “raccontare” (è questo il termine focale) con semplicità e adesione al reale un’esperienza sovrannaturale. Eppure il film non vira mai al thriller paranormale, alla storia “ai confini della realtà”. E non basta lo zampino di Spielberg come produttore esecutivo (che aveva proposto forti emendamenti alla sceneggiatura di Peter Morgan) per invertire la rotta del predicatore pallido Eastwood, che ammette la propria estraneità a qualunque credo religioso, tanto più a qualunque tipo di misticismo da quattro soldi (il film attacca con sarcasmo tutti i ciarlatani che hanno la presunzione di stabilire una connessione con l’aldilà). Per questa assenza di, diciamo così, “fantasia poetica”, il film sembra non decollare: la storia si rivolta su sé stessa, si muove lenta. In fin dei conti poco succede. Ma la vita non è forse così? Hereafter non dà una risposta all’incognita della morte, racconta e basta. Descrive con oggettività laica quello che la scienza, e la medicina in particolare, ha rilevato analizzando gli episodi di morte apparente sperimentata da alcuni pazienti. Hereafter ci chiede solo di aprire gli occhi, perchè ciò che vuole mostrarci può solo rassicurarci e farci sentire più labile il confine tra il mondo dei vivi e quello dei cari defunti e, di conseguenza, avvicinarci ad essi.

Il film deve molto ai suoi interpreti, specialmente a un ingrigito Matt Damon, con la sua recitazione invisibile, la sua equilibrata spontaneità. Anche Cécile de France riesce a trasmettere concretezza, aderenza al reale, con la sua bellezza ordinaria, messa in luce dai frequenti close-up. La colonna sonora è curata dallo stesso regista e spazia da Rachmaninoff ai classici dell’opera da Donizetti a Puccini fino a Bizet. La musica, tuttavia, non si impone sopra il girato, ma lo accompagna in modo molto discreto. Gli effetti speciali, a cura della Scanline e del supervisore agli effetti speciali Michael Owens, sono formidabilmente realistici e convincenti nel ricreare, in apertura di film, lo tsunami che colpì Thailandia e Indonesia nel 2004. L’unica cosa che manca in Hereafter sembra essere lo stesso Clint Eastwood, che abbandona la scena in modo simbolico con il suo Gran Torino per dedicarsi interamente alla regia. Con lui se ne vanno anche l’ironia, l’istintività e il sarcastico sorriso sopra le lacrime, il sorriso dello stoico saggio che sa come va la vita. Il risultato è un pellicola che parla ad un pubblico più maturo, più docile e pacato; un pubblico che non cerca travolgenti emozioni, ma argomenti validi e concreti su cui potere riflettere. E il cinema, finora, uno spunto “serio” e coi piedi per terra, uno spunto totalmente “laico” sulla morte, non l’aveva mai offerto. Nemmeno Eastwood con il suo struggente Million Dollar Baby. C’è chi, guardando il film, cercherà una risposta, una logica. Ciò che scoprirà è che di “certo” nella vita ci sono solo le coincidenze, grazie a cui gli eventi si succedono e tessono storie. Così come la coincidenza riunisce i tre protagonisti di Hereafter, alla ricerca del senso della vita attraverso il contatto con la morte.

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