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cultura dell'immagine e della parola

Torino Film Festival
Diario 2010, Giorno 3

Una scena da The WardArrivati al terzo giorno sono due le certezze di un TFF che ancora non sembra essere decollato del tutto: la prima che è le sezioni più interessanti e fruibili sembrano essere, a dispetto del concorso di Torino28, quelle di Rapporto Confidenziale e di Festa Mobile. La seconda è che una delle più belle visione al TFF fino ad oggi ce l’ha regalata John Carpenter con il suo The Ward, proiettato in anteprima oggi nella sala dedicata alla stampa. Carpenter stupisce non tanto per il suo eccellente stile incalzante che da sempre contraddistingue i suoi film (sopra ogni cosa i suoi elegantissimi movimenti di macchina). E’ piuttosto la narrazione che sceglie di dare alla sua nuova opera che impreziosisce il film. Intendiamoci: il soggetto e l’ambientazione in realtà non sono nuovissimi, anzi. Già lo stesso Anderson con Session 9 (e in qualche modo anche Scorsese con Shutter Island) aveva ripercorso in maniera simile i contesti claustrofobici dei manicomi e ancora di più degli inganni della follia (la somiglianza poi dell’infermiera di The Ward con quella del Chi volò sul nido del cuculo è così evidente da sembrare quasi un omaggio). Ciò che invece va applaudito in The Ward è innanzitutto la capacità di produrre un cinema della paura che gioca, in modo anche divertente, su un doppio binario che nessuno aveva mai percorso: quello del classico horror e quello dello psyco-thriller più claustrofobico ed ingannevole. Nel film di Carpenter questi due binari si incrociano, si contaminano e si alternano più volte, fino a svelare una natura quasi ibrida fra il soprannaturale (il fantasma di turno) e intranaturale (il seme della follia). Carpenter capovolge la visione più volte (fino all’ultimo fotogramma) e innesca reazioni a catena inevitabili, su tutte lo sradicare il film da una critica sociale dei manicomi per innescarlo invece in un circuito di puro divertimento visionario.

Altre belle sorprese, dicevamo, sono arrivate da Festa Mobile: su tutti Cyrus, atteso nuovo film dei fratelli Duplass (e prodotto da altri due fratelli, Ridley e Tony Scott): commedia esilarante giocata su tre personaggi azzeccatissimi: un editor divorziato in piena crisi esistenziale (un bravissimo John C. Reilly), una donna che entra improvvisamente nella sua vita sentimentale e un terzo incomodo rappresentato da Cyrus, appunto: il figlio ventunenne di quest’ultima. Simbolo grottesco e incontenibile di un rapporto di Edipo mai risolto con la madre ed ostacolo strabordante (è proprio il caso di dirlo) che si frappone fra i due nuovi amanti. La guerra combattuta fra John e Cyrus a colpi di psicologia infantile, non fuoriesce mai nella demenzialità del genere (su tutti le commedie “stilleriane”) ma, anzi, fa sorridere proprio nella sottigliezza e nella banalità delle scaramucce che si innescano in maniera travolgente e sensazionale. La sceneggiatura impeccabile e lo stile laconico dei Duplass aggira poi ogni interpretazione della storia e ne fissa invece la sua originale atipicità: vedendo Cyrus sappiamo di assistere alle vicende di uno dei triangoli amorosi più assurdi di sempre, eppure ci sentiamo imprigionati dalla sua carica realista e quasi familiare. Film a bassissimo budget ma ad altissima creatività, uscirà nelle sale italiane il 10 dicembre.

Se poi qualcuno pensava che entrando in sala per guardare The Myth of the American Sleepover si sarebbe sorbito l’ennesimo stupido ed ormonale teen-movie americano, si è ricreduto quasi subito. Il contesto eppure appare lo stesso: tutto si svolge nell’ultima notte d’estate di una cittadina di provincia statunitense, con protagonisti gli adolescenti del posto, fra pigiama party, feste alcoliche, primi baci e prime passioni. Ma l’approccio è decisamente diverso dalle racconto goliardico e nichilista degli American Pie, dove la crescita sessuale è vissuta come feticcio dal glorificare o come l’embrione di uno scontro generazionale. The Myth of the American Sleepover – che appare davvero ben scritto, soprattutto nei dialoghi – si sofferma più sull’introspezione profonda dei personaggi (tutti giovanissimi) e delle storie diverse fra loro che si incrociano in quella stessa notte, fra tentennamenti e liberazioni, in una ricerca tenerissima e quasi struggente della propria identità. E’ in questo modo che il film di David Robert Mitchell può essere considerato un vero e proprio anti-teenmovie, restituendo la dignità a un genere fin troppo declassato dalla cinematografia degli ultimi 20 anni.

Infine, i film in concorso: fra gli altri è stato presentato Portrait of a Fighter as a Young Man, scritto e diretto dal rumeno Constantin Popescu (e opera inseribile nella sua “trilogia della guerra”): un’ambiziosa ricostruzione storica delle vicende di uno sparuto gruppo di partigiani antisovietici durante l’ascesa dei comunisti al governo della Romania. Una storia che denuncia la crudelissima repressione comunista nell’immediato dopoguerra ai danni di chi aveva preso in mano le armi per risollevare le sorti di una Romania sotto il giogo sovietico, in un carrellata certamente impressionante su educazioni ideologiche, torture e rappresaglie contro la popolazione civile delle campagne rumene. Una storia riportata alla luce e meticolosamente documentata nel film con tanto didascalie cronologiche e biografiche che intervallano tutti i vari spezzoni narrativi. Eppure, anche con la sua sistematica ricostruzione dei fatti, il film di Popescu non riesce ad avvicinare con passione e convinzione una vicenda che a fine proiezione sembra ancora lontana per chi anche non la conosceva. Una “dispersione” narrativa che si sarebbe potuta evitare focalizzandosi forse di più nella caratterizzazione dei singoli protagonisti, fatto che durante il film accade purtroppo troppo raramente. Un’occasione mancata.

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