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Debutto positivo per Vieni via con me

E così, dopo le varie diatribe e rinvii, è partito Vieni via con me, programma condotto da Fabio Fazio e Roberto Saviano. Vista la prima puntata, è inevitabile pensare che le polemiche di questi giorni siano nulla rispetto a quelle che seguiranno: in questa Italia dove l’informazione, soprattutto televisiva, è ormai mero gossip, i due conduttori e i loro ospiti hanno infatti affrontato, ed infranto, argomenti considerati veri e propri tabù. E che questi tabù siano stati violati da uno scrittore come Saviano, conosciutissimo e rispettato dal grande pubblico, sicuramente avrà fatto storcere il naso a certi esponenti del “paese felice”, per citare una definizione di Giovanni Falcone. Proprio del magistrato siciliano Saviano parla ampiamente, ma lo fa mettendo in luce aspetti diversi dal solito, spesso puramente formale, panegirico. Lo scrittore napoletano mostra, servendosi di testi e filmati di repertorio, la quasi totale solitudine e la disgustosa ipocrisia che circondò Falcone prima della sua morte, portando all’attenzione dello spettatore documenti agghiaccianti come la lettera di una “persone perbene”, inviata al Giornale di Sicilia e letta in studio da Angela Finocchiaro, che lamentava i “rumori molesti” delle auto della scorta.

La scomoda verità che Saviano sbatte letteralmente in faccia ai suoi spettatori è questa: l’apologia di Falcone non è che la summa dell’ipocrisia di un paese che ignora ed osteggia i suoi uomini migliori da vivi e li santifica una volta morti per soddisfare un meschino scrupolo di coscienza. Proprio questa società presunta “civile”, questa gente perbene, risulta essere il miglior alleato della malavita, che non deve far altro, in realtà, se non posizionare le bombe su di un campo già preparato; preparato dall’ignoranza, dall’invidia, dalla “macchina del fango”, altro grande tabù dell’informazione infranto dal programma di Fazio. I casi vergognosi con cui si sono costruiti falsi dossier e scoop sul direttore dell’Avvenire, Dino Boffo, o sul presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro, aprono la serata, esempi non solo di un’informazione non più degna di essere chiamata tale, ma anche di una cultura dell’ignoranza, che considera infamante l’essere tacciato di omosessualità. Una “colpa”, in questo nostro surreale paese, ben più grave degli scandali di governo o del nostro patrimonio culturale che cade a pezzi.

Quasi inevitabile, a questo punto, l’entrata in scena di Nichi Vendola, governatore della Regione Puglia, a cui è affidato il compito di leggere due elenchi vergognosi: quello dei diversi modi con cui si appellano gli omosessuali e quello delle diverse pene loro inflitte nella storia; elenco assurdo a cui fa da contrappeso l’altrettanto assurdo elenco letto da Saviano, sui comportamenti che, nella sua terra d’origine, rivelano l’omosessualità di un uomo. Poi è la volta dello show di Benigni e la serata raggiunge il suo acme. Il comico toscano ne approfitta per togliersi qualche sassolino dalla scarpa con il direttore della Rai Masi, diverte il pubblico con un monologo sul caso Ruby e le escort quale nuovo “strumento” usato dalla mafia contro i suoi avversari, e ci delizia con una canzone sul Cavaliere davvero esilarante.

È una prima puntata di elenchi quella di Vieni via con me: da quello di Benigni, mancato, sulle escort di Berlusconi a quello di Abbado su cosa sia la cultura. Ed è indubbio che, di questi tempi, con l’Armeria dei Gladiatori a Pompei completamente crollata ed i fondi per il restauro del Colosseo che non si trovano, definire la cultura pari alla vita significa armarsi di una enorme dose di coraggio. O forse di idealismo. La trasmissione si chiude con un Saviano bardato del Tricolore, che recita il giuramento degli adepti della Giovane Italia e ricorda qualcosa che, [img4]a pochi mesi dai centocinquant’anni dall’Unità, appare non come un’ovvietà ma come un’affermazione sconvolgente, ovvero che i presupposti “ideologici” alla base del federalismo leghista non hanno alcun fondamento storico e umiliano un paese che ha cessato di essere periferia d’Europa, terra di conquista, solo a partire dal 1861; un paese che ha trovato nell’Unità l’emancipazione da una condizione di ingiustizia. Saviano lo ricorda e forse il suo è stato, a livello mediatico, la prima vera e degna iniziativa volta a ricordare il nostro Risorgimento così tanto bistrattato (e chi voglia conferme a proposito provi a visitare il Museo del Risorgimento a Roma, luogo indegno a ricoprire il fine per il quale dovrebbe esistere). Centocinquant’anni fa ci emancipammo dall’ingiustizia; forse oggi siamo a quest’ultima troppo avvezzi per poter comprendere realmente la grandezza di quell’evento.

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