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Autopsia di una generazione

Autopsia di una generazione

Un film politico. Così politico da essere realisticamente perfido e spietato. Ma non solo. Post mortem è il terzo lungometraggio di Pablo Larraìn, cineasta cileno che, dopo Fuga (2006) e Tony Manero (2008), conferma di possedere uno sguardo cinicamente proiettato sulla realtà del proprio paese, sul passato di un popolo fortemente sconvolto dalla perdita di certezze, sull’umanità disorientata dallo smarrimento di punti di riferimento, valori. Il tempo è certamente un ambito d’indagine importante, al pari della morte e del dinamismo del corpo, e Post Mortem amplifica ulteriormente questa esigenza. La vicenda del dattilografo Mario Cornejo che presso l’obitorio trascrive le relazioni delle autopsie realizzate dai medici forensi, e della ballerina Nancy Puelmas sono al centro di un film che gravita interamente intorno al significato della visione. Larraìn mette in scena differenti tipologie di visione: c’è quella intima, ossessiva, personale di Mario nei confronti di Nancy; c’è quella particolare, precisa, popolare delle manifestazioni in strada; c’è quella descrittiva, temporale, realistica della paura del Cile; c’è quella dell’autopsia di Allende. Il significato del termine “autopsia” (dal greco “auto” e “opsis”, vista) può aiutare se completato dalla necessaria ricerca di senso e dall’esigenze etiche ed estetiche del regista.

Post mortem possiede un’impronta tragica e crudele che non assumerebbe sembianze così reali e sconvolgenti se non intersecasse chirurgicamente l’impianto grottesco e onirico, quantitativamente e qualitativamente allo stesso livello. Il film di Larraìn, grazie a questa duplice identità, a questo doppio strato, a queste due dimensioni (cifra stilistica determinante anche in Tony Manero), si autodetermina come uno spaccato non troppo metaforico, lucido e spiazzante, di un’umanità disperata, di un mondo distrutto, di una vita che non c’è più e che necessita di essere rivista, proprio come in un’autopsia. La scomodità, la ruvidezza, la sporcizia dei modi di Mario sono lo stile cinematografico di Larraìn e rappresentano il motivo che genera la claustrofobia del film. Post mortem è un film sulla visione, che fa vedere, che mette in scena (come in un palcoscenico) che non nasconde (ancora l’autopsia), che non spegne le luci (anche in Tony Manero, lì delle esibizioni, qui dell’obitorio). Mario è rigido, a disagio, in conflitto con sé stesso, con il mondo che lo circonda. Desidera amare ma non gli è permesso: da una parte non riesce, dall’altra non può. Attraverso il personaggio di Mario, che di quell’ambiente sembra l’emanazione, Larraìn biforca il suo sguardo e non solo descrive un momento chiave della storia del Paese (la morte di Allende, 11 settembre 1973, e l’inizio della lunga glaciale dittatura di Pinochet – per questo Tony Manero è cinematograficamente posteriore a Post mortem in quanto ambientato nel 1978), ma soprattutto si fa carico di definire l’atteggiamento di una generazione di fronte a quel momento, senza nascondere la paura, senza privarsi del coraggio della narrazione.

Post mortem è un film coraggioso che costringe ad aprire gli occhi. E Pablo Larraìn, anche grazie al supporto della fotografia sgranata di Sergio Armstrong che restituisce pezzi di memoria autentici, conduce lo spettatore in un viaggio nel tempo folgorante. Il finale straordinario del film conclude la vicenda, chiude lo sguardo e anticipa la fine della speranza. Non c’è più niente da vedere. L’inquadratura è riempita, la visione è impedita. Non c’è più niente da vedere. L’ammasso di ostacoli cresce con il vuoto. L’immagine sepoltura sembra suggerire che è meglio non vedere.

Curiosità
Presentato a Venezia 2010 in Concorso. Ha dichiarato il regista Pablo Larraìn: «L’ideale di Mario di conquistare l’amore impossibile di una donna è anche l’ideale della nazione che insegue un modello politico – il Socialismo -, tra i cadaveri di coloro che sono stati uccisi in nome di quegli stessi ideali militari imposti con noncuranza, senza misurare i costi e le conseguenze. Post mortem, ambientato in uno dei periodi più bui e sanguinosi della storia del Cile, attraverso l’incrocio di tre registri cinematografici, estetici ed etici – testimoniale, storico e narrativo – va in cerca della sua funzione poetica attraverso il turbamento, l’assurdità e la conseguenza di un viaggio senza scopo».

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