hideout

cultura dell'immagine e della parola

Venezia, i film:
Silent Souls

Una scena di Silent SoulsMarco Muller può tirare un respiro di sollievo. Silent Souls, presentato oggi in concorso per Venezia67, è apparso fin di primi fotogrammi uno di quei capolavori stilistici e narrativi capaci di ribaltare le sorti di un Festival che fino ad ieri non era mai davvero decollato. Solo per questo fatto il talentuoso Aleksei Fedorchenko ha già compiuto un mezzo miracolo. Lui che a Venezia era già passato nel 2005, all’interno del palinsesto Orizzonti con il suo film d’esordio Pervye na Lune, e che 5 anni dopo ritorna con un film ispirato da un racconto del giovane scrittore kazako Denis Osokin (che ha curato anche la sceneggiatura). Un’opera a metà strada fra il road-movie e il documentario etno-antropologico, con cui Fedorchenko indaga le radici più profonde del suo paese, esplorando il microcosmo culturale ed umano della minoranza Merya: una tribù ugro-finnica che nei secoli si è dispersa nella popolazione slava ed oggi è drasticamente ridotta a pochi abitanti di poche città.

Un commovente viaggio di due uomini (Aist e Meron) che portano lo spettatore dentro e verso la tradizione, la ritualità, la laicità sacra di una comunità che “non crede negli dei ma soltanto nell’amore degli altri”. Ma anche una lunga e sofferta elaborazione del lutto (individuale per Miron e collettivo per l’etnia Merya) nella quale Fedorchenko contamina le storie dei due protagonisti aprendo il suo sguardo sull’universale, sul rapporto fra uomo e natura e sul significato stesso di “memoria”. E’ in questo modo, con una sorta di “tristezza che avvolge come una madre” (parafrasando proprio una frase di Aist) che il regista – nonostante la scena finale – saprà rasserenare lo spettatore, ricordandogli la sua unica certezza: “per sempre dura solo l’amore”.

Questo ambizioso e profondo immaginario pre e post-naturalista proiettato da Silent Souls è rappresentato magistralmente da Fedorchenko: assenza quasi totale dei movimenti di macchina, tempi dilatatissimi e dialoghi dosati al minimo. La glacialità che caratterizza i personaggi di Silent Sous è insomma trasmessa perfettamente con la ricerca visuale del regista, in una composizione di immagini distaccate ma potentissime e impreziosite dalla migliore fotografia vista fino ad oggi in questo Festival. Un quadro filmico fedelissimo alla miglior tradizione del cinema russo, che fin da oggi si candida come primo vero film outsider in concorso.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»