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cultura dell'immagine e della parola

Venezia, i film:
Somewhere

Elle Fanning in SomewhereIl 2003 l’ha vista illuminare il Lido, allora nella sezione Orizzonti con Lost in Translation, film che dopo quella parentesi fu proiettato a livello internazionale come una delle pellicole migliori dell’anno, facendo incetta di premi e consacrandola con l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Dopo sette anni, e con nel mezzo, la prosopopea pop di Maria Antoniette, che chiudeva simbolicamente la sua cosiddetta “Trilogia dell’incomunicabilità”, Sofia Coppola torna al suo stile asciutto, di riflessione esistenziale, che tanto l’ha fatta amare a pubblico e critica.

Somewhere, presentato oggi in concorso, racconta di un giovane attore, Johnny Marco, interpretato dal bravo Stephen Dorff, e del suo lento riavvicinamento con la vita. Un divorzio alle spalle, un film in promozione, un albergo, un torpore quasi anomalo, che però si risveglia grazie alla figlia undicenne Cleo (Elle Fanning), che lo aiuta a ritrovare la normalità, scrollandosi di dosso paure e insicurezze. Lo scenario dell’albergo poi, location di culto per la regista, ci proietta inevitabilmente a Lost in Translation, a quella Tokyo meravigliosa (qui siamo a Los Angeles), a quella sensazione di straniamento / ritrovamento che anche questa pellicola riesce a trasmetterci.

“L’hotel è il luogo ideale di transizione, di cambiamento – dice la regista –
Con questa storia volevo mettere in evidenza il contrasto tra il mondo apparente, fatto di lustrini e eccessi, a quello più normale, meno superficiale”. Girato per qualche giorno anche a Milano, dove la Coppola ha ricreato una serata dei Telegatti (alla quale lei stessa anni fa aveva partecipato col padre), il film torna a prendersi così gioco di tutto quello che circonda lo show business, nel bene e nel male. “Mi interessava soprattutto però – continua la regista – parlare della transizione, del momento in cui si diventa più introspettivi.” Il film, anche se accolto favorevolmente (molti applausi dalla critica), sembra però non trasmettere a pieno quella forza e magia narrativa, marchi di fabbrica della Coppola consacrata. Tuttavia non ci si perde troppo: si ride, si riflette, ci si ritrova. E questo è pur sempre un ottimo risultato.

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