Tra diffidenza e assenza
La vicenda che vede protagonisti Brenda Blethyn e Sotigui Kouyatè (Orso d’Oro a Berlino come migliore attore) nel ruolo di Elizabeth e Ousmane è innanzitutto un racconto avvincente, emozionante e carico di suspense. Il tentativo di Rachid Bouchareb (qui regista e sceneggiatore), infatti, sembra essere diretto verso questa direzione che, fin dalle prime sequenze, assume le forme di un racconto sulla diffidenza, sulla paura e sullo smarrimento nel quale lo spettatore è costretto ad immedesimarsi senza vie d’uscita. Non ci sono certezze. Non ci sono appigli. Non ci sono indizi o scappatoie consolanti. Il film di Bouchareb, progressivamente, si trasforma in un’estenuante ricerca della verità che non lascia scampo né ai personaggi, né allo spettatore.
È significativo che il film racconti, inoltre, la struttura della diversità e non solo la diversità. Elizabeth e Ousmane, pur con caratteristiche e storie diverse (lei è vedova, vive su un’isola inglese, coltiva la terra e alleva asini; lui vive in Francia, da solo ed è giardiniere), sono due personaggi molto interessanti perché ricchi di sfumature, nonostante, inizialmente, possano essere intesi semplicemente come due opposti (lei donna e protestante, lui uomo e musulmano). Ma l’operazione di Bouchareb si spinge molto più in profondità, aggiunge particolari curiosi (basti pensare alle differenti strategie per avviare le ricerche dei figli: lei chiede aiuto alla polizia, lui alla comunità musulmana) e fa emergere nei due personaggi il desiderio nascosto dell’incontro. Che, a quanto pare, nel loro caso è inevitabile, rivelandosi pure una ricchezza.
London River è un film robusto, dal ritmo incalzante e molto contemporaneo perché pur non abbandonando mai la traccia della diversità culturale, riflette sulle dinamiche della diversità e dello scontro culturale che, per Elizabeth e Ousmane, nascono principalmente dal sospetto e dall’ignoranza. Addirittura è, forse, troppo contemporaneo perché propone una riflessione che oggi, nel 2010, in molti si sentono di affrontare ma che ai tempi degli attentati londinesi in pochi avrebbero accettato o capito. Come dimostra la reazione di Elizabeth che di fronte alla scoperta che la figlia studia l’arabo si chiede: «Ma che bisogno c’è di studiare l’arabo? Chi parla arabo al giorno d’oggi?». Sono proprio questo tipo di scoperte destabilizzanti che fanno vivere a Elizabeth una fatica culturale e umana e spingono lo spettatore di fronte ad un film che attraverso l’invisibile mostra il visibile. Cioè il senso pesante e inconfondibile di un’assenza.
Curiosità
Più che avvicinarlo al passo di Matteo con cui si apre il film (“Ama il tuo nemico”), forse, sarebbe interessante vederlo, prima o dopo, L’ospite inatteso di Thomas McCarthy e confrontare i due punti di vista.
A cura di Matteo Mazza
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