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Precarietà affettiva: la realtà nel tradimento

Precarietà affettiva: la realtà nel tradimento

Cogliere la realtà in divenire. Questa è, certamente, una delle suggestioni più interessanti del film di Silvio Soldini che sceglie di guardare (come già in Giorni e nuvole) alla realtà (umana e urbana) per rappresentare la trasformazione di Anna (Alba Rohrwacher), giovane donna che lavora, vuole un figlio con/dal compagno Alessio (Battiston), ma un giorno incontra Domenico (Favino) e si sente travolta da una passione nuova e un desiderio vero (e il coltello riportato da Domenico rappresenta molto di più di una semplice dimenticanza). Ma Anna, all’inizio del film, nonostante quello che si possa pensare, intuire, presumere non sembra essere una donna insoddisfatta dalla sua esistenza. Scopriamo in seguito che la sua insoddisfazione e la sua precarietà affettiva coincidono con l’esigenza di amare una persona nuova e di entrare a far parte di una nuova realtà, non più soltanto controllata. Forse perché la realtà Anna l’ha sempre evitata o, forse, perché l’ha sempre voluta costruire, impostare, gestire come un qualcosa di fatto e finito, senza sfumature. Comunque, Anna, all’inizio del film, non sembra soffocata dal mondo che la circonda. E proprio questa sottile differenza del suo stato d’animo di partenza rappresenta la forza reale di Cosa voglio di più, che prende spunto dal testo di una canzone di Lucio Battisti, racconta di una trasformazione (ripensando al film è significativo accorgersi che si inizia con una nascita e si finisce con una morte affettiva/relazionale) e soprattutto s’impone senza indugi e senza punti interrogativi quasi a dimostrare e a garantire che la realtà inseguita e desiderata da Anna (e, in parte anche da Domenico), possieda questo profilo così concreto, materialmente, sentimentalmente, fisicamente. Una scelta narrativa e, inevitabilmente, conoscendo il cinema di Silvio Soldini, stilistica. Dalla luce naturale della fotografia, alle inquadrature realizzate con la macchina da presa che pedina i protagonisti (Soldini dice: «per non giudicarli»), dalle riprese movimentate e frenetiche alle scene di sesso, dai colori di Tunisi agli interni bui e asfissianti, tutto sembra riflettere l’intenzione originale, ovvero raccontare un cambiamento reale attraverso il reale, come se l’occhio, indiscreto, di chi guarda fosse partecipe ma non giudicasse. Ma anche cifra stilistica che esprime, per l’ennesima volta una forza autentica e originale di un cinema che predilige la visione della sottrazione, delle sensazioni e delle sfumature.

La donna è, anche qui al centro del discorso, ma non è l’unica a vivere il cambiamento, la trasformazione. Il contesto sociale, le relazioni, gli incontri, gli avvenimenti casuali che sconvolgono il ritmo e le abitudini delle persone (ah, maledetto o benedetto coltello!) assumono il ruolo di protagonisti nascosti, invisibili ma percettibili,come spesso accade nel cinema di Soldini. Un’anima divisa in due, Pane e tulipani, Agata e la tempesta, Brucio nel vento, ma anche Giorni e nuvole e L’aria serena dell’Ovest hanno anticipato la struttura aperta di Cosa voglio di più lasciando che la vita dei protagonisti del film segua un finale non chiuso, non soffocante come la vita o la condizione esistenziale appena esplorata e appena fatta vedere.

C’è una fatica di fondo (e sullo sfondo), un peso perfettamente rintracciabile nelle vicende dei personaggi di Soldini che porta in superficie le profondità dell’animo umano, anche quando usa toni confinanti con l’onirico (Brucio nel vento) o meno gravi e più magici (Pane e tulipani o Agata), soprattutto però quando affronta temi difficili, scomodi, ingombranti come l’immigrazione (Un’anima divisa in due) o il precariato lavorativo, affettivo, umano (Giorni e nuvole e Cosa voglio di più). Ciò che conta, nonostante questo peso alla lunga condizioni pure la narrazione, è che il cinema di Soldini insista e investa più sui modi che sui contenuti. Si delinea un profilo umano aderente alla realtà, proprio perché si respira questa realtà e si percepisce la realtà come ostacolo e come pericolo. Il contesto socio-economico, il paesaggio urbano, il sistema intricato delle relazioni traducono in immagini vere quello sfondo su cui si allestisce la vita dei personaggi. E Soldini sembra sempre più intenzionato ad andare verso questa direzione autoriale, interessata a catturare la potenza vera e reale dei propri attori attraverso le sempre più frequenti riprese a mano, a costo di uno sforzo maggiore da parte dello spettatore, interessata a scavare sempre di più nell’animo delle persone anche attraverso la composizione della colonna sonora o la punteggiatura dei rumori in sottofondo. Interessante che, a proposito, sia il rumore di vetro rotto a scandire uno dei momenti più tesi e drammatici del film, quando l’amore tra Domenico e Anna sembra impossibile da vivere. Un rumore tradotto in presagio, come tanti altri segni sparsi nel film (dalle maniglie delle porte che non si aprono, alle sbarre che ostacolano il passaggio o al già citato coltello che affonda nella vita di Anna), anticipatori di un epilogo forse semplicemente amaro o forse, completamente reale e disilluso. Cosa voglio di più è un film sulle mancanze: di tempo, di spazi, di soldi, di verità, di desideri. Da vedere e riscoprire.

Curiosità
A proposito della scelta degli attori, Silvio Soldini ha detto: «Terminata la sceneggiatura con Doriana Leondeff e Angelo Carbone – il cui contributo è stato fondamentale per raccontare una generazione che non è più la mia – avevo idee piuttosto confuse sui due protagonisti. Anna doveva essere una donna di trent’anni con una sua forza, sensualità, capace di prendere l’iniziativa. Perché è lei il motore che fa partire tutto. Una donna, insomma, con un’immagine un po’ lontana da quella che nella mia testa avevo di Alba Rohrwacher. È un’attrice che mi piace molto, con la quale avevo già lavorato in Giorni e nuvole, ma là interpretava la figlia ventenne… Se alla fine ho scelto lei è solo merito suo. Aveva così voglia di fare questo ruolo, di mettersi alla prova su un personaggio così lontano da quelli che le sono stati offerti finora, che dopo cinque provini ho capito che avevo Anna, che Alba ce l’avrebbe fatta. Pierfrancesco Favino non lo conoscevo, è stato subito un bell’incontro, gli ho fatto un provino e quando, con la mia casting Jorgelina Depetris lo abbiamo visto assieme ad Alba, abbiamo subito capito che Anna e Domenico erano loro. Con Teresa Saponangelo avevo già lavorato ne Le acrobate, l’ho ritrovata in vari altri film e il ruolo di Miriam mi sembrava perfetto per lei. Giuseppe Battiston invece è l’unico attore che avevo in mente sin dalla fase di scrittura. Con lui esiste ormai una storia, un legame che attraversa tutti i miei film tranne il primo, e ho sempre voglia di offrirgli personaggi nuovi, diversi da quelli già affrontati, per andare avanti con un nostro discorso. Mi diverto molto a lavorare con lui».

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