L’altra Teheran
Per definire la potenza di alcune opere cinematografiche alle volte (molto raramente) bisogna mettere da parte i giudizi di stile sull’approccio registico, la scrittura della sceneggiatura, i dialoghi, la fotografia e quant’altro fa di un film un’esperienza narrativa costruita sopra quel confine (sottilissimo) fra realtà e finzione. E’ invece necessario concentrarsi sul ruolo di testimonianza del film nel suo pieno trasfigurare una realtà documentandola e raccontandola nel modo più semplice ma rivoluzionario possibile. Questo è proprio il caso de I gatti persiani (premiato all’ultimo Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard): forse il più coraggioso tentativo di denuncia sociale che si ricordi negli ultimi anni.
Girando (clandestinamente) il film in soli 17 giorni, con una piccola telecamera digitale e con un cast di ragazzi che avevano già in tasca il passaporto per fuggire alla fine delle riprese, il regista Bahman Ghobadi si limita a narrare la realtà sociale iraniana dal punto di vista di una generazione pienamente integrata ai costumi occidentali (nei visi, nei gesti, nelle abitudini, nella tecnologia ma anche nei sogni) e che pure non possono esprimere artisticamente una tendenza considerata normale per qualunque paese del mondo civilizzato ma non per l’Iran del 2010. E’ proprio la musica ad essere il veicolo di un bisogno tanto nascosto quanto diffuso e ritenuto sovversivo: nei posti più impensabili (campagne, stalle, scantinati grattacieli in costruzione) si scopre una Teheran che nessuno osava immaginare, attraversata da generi musicali (hip-hop, indierock, metal) così lontani dalle tradizioni musicali dell’Islam e così vicini alla MTV generation dei ragazzi europei ed americani. Il risultato di tutto ciò è una sovrapposizione (contaminazione) contrastante fra la musica come deja-vu dell’occidente e le immagini crudissime e quotidiane di una Teheran tradizionalista immersa nel suo disagio sociale secolarizzato. E’ questo accostamento che fa emergere un immaginario surreale (eppure realissimo) che è il punto forte dell’opera di Ghobadi, impreziosita ancora di più per un’assenza ammirevole di ogni tipo di retorica vittimistica: poliziotti o giudici entità che non entrano mai nel campo visivo del regista, irriconoscibili ed immateriali, unici veri attori e quindi false presenze nel film.
Per questo I gatti persiani, nonostante l’emergenzialismo con cui è stata prodotta (immagini sfocate, inquadrature traballanti, script che non decolla) rimane davvero un lavoro inclassificabile e ineguagliabile nella filmografia iraniana. Una simbiosi perfetta fra musica e cinema, nella loro potenza di emancipazione sociale e nella loro sovversione come linguaggi universali. E che, nonostante il finale, sa regalarci la speranza di un Iran underground, ancora tutto da scoprire e sempre più diffuso: proprio come sono diffusi i “gatti persiani”, che (ci insegna il film) sono proibiti di rimanere liberi per le strade delle città ma invadono di nascosto le case degli iraniani.
Curiosità
Di ritorno dal Festival di Cannes, il regista Bahman Ghobadi è stato arrestato al momento del suo rientro in Iran. Poi rilasciato, ha abbandonato il paese ed oggi vive in esilio in USA.
A cura di Daniele Lombardi
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