hideout

cultura dell'immagine e della parola

La teatralizzazione del senso di colpa

Con Shutter Island Martin Scorsese confeziona una pellicola fedele in toto al romanzo da cui è tratta, ossia L’isola della paura di Dennis Lehane (2003), in un adattamento, firmato da Laeta Kalogridis, che cestina il superfluo per mantenere inalterate l’azione e i dialoghi originali, recitati quasi parola per parola e interpretati da Leo Di Caprio & Co. La sottigliezza del lavoro eseguito con un team di serie A dal premio Oscar per la regia 2007 serpeggia invisibile, ma prepotente, in una trasposizione cinematografica che non fa che aggiungere – e sta proprio qui l’abilità – la multimedialità alla storia narrata da Lehane nel libro. L’ardua impresa diventa possibile grazie al coadiuvarsi di professionalità di grande spessore, a partire dal direttore della fotografia Robert Richardson per passare al premio Oscar nostrano Dante Ferretti fino ad arrivare all’indispensabile apporto di Robbie Robertson, che esegue una colonna sonora austera e dissonante, studiata a tavolino per depistare e angosciare il pubblico. Dulcis in fundo, il lavoro di editing della sempre fedele Thelma Schoonmaker rende giustizia all’intreccio imbastito ad hoc da Dennis Lehane nel suo romanzo: l’ordito fatto di colpi di scena, ellissi narrative e flashback è assimilato in pieno e fatto proprio in un film dalla trama avvincente e allucinata.

I lettori dello scrittore statunitense non resteranno quindi delusi da una sceneggiatura non originale che non solo ricalca gli eventi più significativi del romanzo, ma ne assimila anche la struttura narrativa, ossia il modo in cui Lehane ha incastrato le sequenze narrative l’una con l’altra. D’altro canto, i fan del regista potrebbero, invece, risentirsi un po’ sul finale, per il “cedimento di stile” nel punto in cui tutti i nodi vengono al pettine – ma, notiamo bene, si tratta dell’unico momento di lucidità nella mente del protagonista e con tutta probabilità s’intendeva proprio fare percepire allo spettatore questo stato psicologico in termini extra-diegetici. In ogni caso, la scena di chiusura del lungometraggio ribalterà di nuovo il film in extremis, riportando alla mente dello spettatore cinefilo l’ineluttabile sorte a cui è destinato il Randle Patrick McMurphy (Jack Nicholson) del disturbante film di Milos Forman Qualcuno volò sul nido del cuculo, del 1975, anch’esso incentrato sul dramma delle psicopatologie vere o supposte tali. Fin dall’inquadratura iniziale, che prende il via in medias res con l’agente federale Teddy Daniels che rimette durante il viaggio in traghetto verso Shutter Island, i tempi e gli spazi del libro sono dunuqe rispettati. In seguito, ogni singolo dettaglio del romanzo funzionale alla risoluzione della vicenda – dalla goffaggine con cui il “collega” Chuck estrae la pistola dalla fondina alla pacchiana cravatta che Teddy ricevette in regalo dalla defunta moglie – viene replicato visivamente, senza enfasi e ostentazione. Chi ha letto Lehane non potrà fare a meno di pensare che “bang! Scorsese ha centrato il bersaglio!”. Chi non l’ha letto non noterà nulla di artificioso, ma vedrà il film filare liscio secondo gli schemi del thriller.

Il lettore e lo spettatore attenti noteranno, in particolare, che la bravura di Scorsese & Co. risiede nella geniale intuizione di assecondare le visioni del protagonista, coinvolgendo nell’inganno tutti coloro che sono all’oscuro delle regole del gioco (e, cioè, coloro che il romanzo non l’hanno letto). Un esempio per testimoniare l’abilità degli addetti ai lavori è indubbiamente dato dalla scena in cui l’agente Daniels, in preda alla confusione mentale, e lo spettatore ignaro vedono alla base della scogliera una macchia che credono essere il corpo esanime del collega Chuck, ma che si rivela poi essere solo un’illusione ottica. L’abilità di Scorsese sta proprio in questo: [img4]nel riuscire a concretizzare la visione falsata di Teddy estendendola al pubblico. Verità e visioni, finzione e realtà: il film di Scorsese modella un complicato cubo di Rubik che si prende gioco tanto del protagonista, quanto dello spettatore. Un’impresa non da poco, se si considera che noi tutti tendiamo a credere più ai nostri occhi (e quindi all’immagine cinematografica) che alla semplice parola “altrui” (quella del romanzo). Col risultato che il colpo di scena filmico è più d’impatto, rispetto a quello narrativo. Una nota negativa, però, è che il film non lascia nessuna domanda aperta – con buona pace di chi si attende un finale contraddittorio in linea con lo stile dell’intera pellicola.

L’isola della paura, romanzo di Dennis Lehane, 2003
Shutter Island, regia di Martin Scorsese, 2010

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»