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Non lo so, ma dobbiamo andare

Non lo so, ma dobbiamo andare

Quando si pensa al fenomeno dell’emigrazione, lo scenario dei movimenti interni alla Cina è forse uno degli ultimi che si affaccia alla mente. E invece gli spostamenti di migliaia, forse milioni di lavoratori da un punto all’altro della sterminata repubblica popolare sono all’ordine del giorno, con risvolti drammatici per la società cinese. Andres Seibert è partito per realizzare un fotoreportage sul fenomeno ed è tornato in Svizzera (per modo di dire, visto che risiede a Tokyo) con due prodotti: da una parte un lavoro fotografico esposto e premiato in numerose mostre in tutto il mondo, dall’altra un documento video che segue passo per passo il cammino del reporter e dei suoi compagni di viaggio.

Due prodotti che si completano alla perfezione: da un lato, come rivendica lo stesso Seibert nella chiosa finale del film, l’inchiesta fotografica dimostra di avere una dimensione e un valore ancora attualissimi anche in tempi di assoluta pervasività delle immagini televisive e del web; dall’altro, solo il film può restituire alle istantanee di Siebert una dimensione dinamica ed evolutiva, mostrandone lo sviluppo nel tempo fino alle conseguenze più drammatiche. La sequenza che più colpisce nel documentario è infatti, senza alcun dubbio, quella della morte del signor Zhou, un migrante intervistato nella prima parte del film e in seguito scomparso per un’improvvisa malattia. Seibert, Hermann e la sua troupe tornano sul luogo dell’intervista per incontrare i familiari e partecipare ai funerali dell’uomo, introducendo nel documentario un elemento di coinvolgimento personale e di toccante umanità che non passa inosservato. Non che manchino, nell’ora e mezza dell’opera dell’esperto regista di Lucerna, le scene di forte impatto: dal minatore costretto a scavare in condizioni inumane, che ricorda di essere stato visitato da un medico per l’ultima volta negli anni Ottanta, all’anziano senzatetto che vive sotto una tenda nell’area di costruzione di un centro commerciale, fino ai bambini mongoli che incontrano i genitori una volta all’anno e alle centinaia di lavoratori che si spostano “from somewhere to nowhere” senza neppure conoscere la propria destinazione. Tutti viaggiatori assolutamente privi, malgrado i proclami del regime, di qualsiasi forma di tutela o sostegno, e costretti a diventare stranieri all’interno del loro stesso paese.

Il documentario di Hermann, malgrado qualche occasionale lungaggine soprattutto nella prima parte, affronta il tema con uno sguardo curioso e lucido, favorito dalla totale assenza di retorica. Ma non sono soltanto le condizioni di vita dei cittadini cinesi ad attirare l’attenzione del cineasta: l’oggetto dell’indagine, in un interessante gioco di rimandi, è anche il lavoro stesso del fotoreporter, il suo approccio rigoroso ma creativo alla professione, il senso e le conseguenze del suo lavoro.

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