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cultura dell'immagine e della parola

Una fase negativa

Una fase negativa

Riflettere sull’integrazione in Sudafrica senza parlarne mai. L’impresa riesce per quasi tutto il film a François Verster, affermato documentarista con diversi Emmy Award all’attivo: solo qua e là il tema storico-sociale riemerge per brevissimi tratti, con considerazioni fulminanti pronunciate dagli intervistati (tutti abitanti del quartiere di Sea Point, a Città del Capo) e riprese per i titoli dei cinque capitoli che compongono il documentario. Sono, senza dubbio, i momenti chiave del film: si sorride sentendo dire in riferimento al Sudafrica che “ogni paese ha attraversato la sua fase negativa”, si riflette quando il custode delle frequentatissime piscine di Sea Point afferma che “ci vorranno almeno vent’anni prima che i nostri figli trovino un punto d’unione”, si rimane interdetti alla frase “qui non c’è più posto per i bianchi” lasciata cadere da una delle anziane ospiti di una casa di riposo con vista mare.

Per tutto il resto del film, tuttavia, al racconto del Sudafrica di oggi ci si arriva soltanto per induzione: il documentario è un mosaico di piccoli gesti quotidiani, di facce più o meno peculiari, di voci non sempre memorabili, abilmente affiancate a brevi inserti di filmati d’epoca che mostrano come appariva Sea Point ai tempi della segregazione razziale (non molto diversa da adesso, per la verità). Il lavoro di Verster, in questo senso, parte benissimo: le prime due sezioni del film si giovano di un ritmo molto elevato, grazie all’abilissima giustapposizione di immagini di varia origine, e di una benefica ironia che si riflette sia nel montaggio, sia nei singoli episodi, come l’irresistibile sfida di canto tra un bambino impertinente e un vecchio seduto sotto un albero a riposare. Fin qui tutto funziona alla perfezione; poi, quando si tratta di affrontare tematiche meno leggere, il meccanismo si inceppa. Un po’ perché vengono meno la freschezza e l’approccio disincantato della prima parte, un po’ perché oggettivamente le immagini mostrate non sono particolarmente significative: gli sgomberi dei senzatetto, per quanto odiosi, sembrano tutto sommato un problema di minore entità, così come la preghiera della folta comunità musulmana in occasione del Ramadan lascia il tempo che trova. Né aiuta l’idea di focalizzarsi sulla vita all’interno del ricovero per anziani (compresa la morte di uno degli ospiti); ogni tanto emerge comunque qualche “perla”, come il ragazzo che indossa una t-shirt di Che Guevara scambiandolo per Bob Marley.

Il finale, con abitanti e visitatori di Sea Point impegnati a protestare contro l’edificazione di un nuovo centro commerciale, va a completare un quadro d’insieme nel complesso coerente, anche se non del tutto riuscito. Soprattutto se l’intenzione era di evidenziare le difficoltà e gli ostacoli del processo di integrazione: l’immagine che ne esce, in realtà, è quella di un Sudafrica che certamente ha i suoi problemi e senza dubbio non è la “nazione arcobaleno” sognata da Mandela, ma è anche la cosa più vicina a una società multirazziale che si sia mai vista nel continente africano e in gran parte del globo.

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