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Le streghe di Tunisi

Le streghe di Tunisi

Già nota per il fortunato lungometraggio d’esordio Satin rouge, selezionato a Berlino nel 2002, Raja Amari sceglie questa volta un soggetto fortemente simbolico per affrontare temi ormai classici nella cinematografia maghrebina, come il contrasto tra modernità e tradizione e la condizione della donna, ma anche per approfondire con coraggio e intensità gli abissi della psicologia femminile (e umana). Quello della regista tunisina è un gioco sottile sul filo dell’equilibrio: il film si situa consapevolmente a cavallo tra realtà e fantasia, prendendo talvolta decisamente la via della favola, come nelle scene in cui l’irrequieta Aicha si aggira come un fantasma tra le pareti della casa improvvisamente animata da una gioventù esuberante e chiassosa.

All’inizio il simbolismo sembra fin troppo semplice: da una parte tre donne sole, che neppure abbandonando il contatto con la controparte maschile riescono a emanciparsi dal ruolo che la tradizione e la religione affidano loro, impersonato dall’ossessivo dominio matriarcale della madre della protagonista. Dall’altra due giovani che sembrano vivere in un altro mondo, in cui libertà di costumi e di pensiero, ma anche superficialità, la fanno da padroni. Via via che il film avanza, però, il discorso si fa più complesso e articolato, mescolando realtà e menzogne, caratterizzazioni positive e negative. L’ambiguità diventa la cifra stilistica dell’opera, e i personaggi vengono “umanizzati” mostrando il loro lato debole, per mitigare una crudeltà che sarebbe insostenibile se rappresentata in modo totalmente realistico: a questo mira l’insistenza sulle represse pulsioni sessuali, prima implicite e poi esibite, delle tre protagoniste. Nel finale, la regista arriva addirittura a evocare un impossibile idillio tutto al femminile tra sequestratrici e vittima, in una sorta di rovesciamento dei ruoli imposti dalla trama. Ed è proprio questa splendida e minuziosa caratterizzazione dei personaggi a dare più forza a un finale “hanekiano”, che va al di là di tutte le possibili interpretazioni e punta diritto a toccare le corde emotive dello spettatore con scene di grandissimo impatto visivo. La giusta conclusione e forse l’unica possibile per un’opera che non propone soluzioni né facili vie di fuga, anzi: da un lato sembra attribuire ai personaggi stessi gran parte delle colpe per il loro isolamento che è anche convivenza forzata (efficacissime le scene in cui, in momenti diversi, le tre protagoniste si chiudono a chiave nel bagno), da un lato però punisce severamente l’unico personaggio femminile “buono” che tenta di affrancarsi dalla sua condizione di sottomissione.

Il merito della Amari è di aver saputo trattare una materia tanto delicata senza scadere nel melodramma e senza appesantire eccessivamente la pellicola, comunque non adatta a tutti i palati per via del ritmo compassato e degli scenari ripetitivi. Inevitabile che un film così claustrofobico e buio (ottima la fotografia di Renato Berta), circoscritto in pochi ambienti, punti tutto sulle interpretazioni delle tre attrici principali: brave tutte e tre, anche se giganteggia la giovane Hafsia Herzi, rivelatasi nel 2007 con il grande successo Cous Cous.

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