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Semplici sguardi
sull’odio

Semplici sguardisull'odio

Ci sono tre tipi di documentari sulle gang. Il primo è quello sensazionalista, con grafiche tamarre e musica aggressiva, colpi di pistola, sangue dappertutto e voce narrante gutturale. Il secondo è tipo Made in America di Stacy Peralta: uno sguardo onesto e retrospettivo che cerca di mettere il crimine in un contesto storico e sociale più ampio, parlando prevalentemente con gente che ha già capito che esiste un mondo oltre le gang e cerca di aiutare gli altri gangster a capirlo. E poi ci sono i documentari dove non c’è nessuna voce narrante, nessun contesto, ma si è messi di fronte alla routine quotidiana di gente per cui è normale andare al lavoro con il figlio appena nato appeso al collo ed un tatuaggio che ti copre la faccia intera e dice a tutti che sei una persona da buttare. Gente che è costretta ad acconsentire all’internamento del proprio figlio in un carcere minorile, perchè tanto non serve a niente mandarlo a scuola per ritrovarselo subito in strada che rischia di farsi ammazzare. Oppure ancora una donna che va dal dottore a provarsi un occhio di vetro, poco dopo che le hanno estratto una biglia dal cranio che probabilmente qualche membro di una gang rivale le ha sparato in faccia con un fucile casereccio. Non vediamo la violenza, nessun ragazzino esaltato con un AK-47 più grosso di lui si vanta davanti ad un obiettivo silenzioso. Non ci sono assassini, solo funerali.

Le storie che Christian Poveda è riuscito a raccontarci impressionano per la semplicità di uno sguardo che non giudica l’umanità, ma si fa carico di trasmetterla senza filtri retorici. Poveda voleva far vedere questa gente al mondo, farci capire come vivono, le soluzioni che cercano. Il fotografo e documentarista ci teneva particolarmente a raggiungere gli Stati Uniti con questo film, siccome le gang in El Salvador sono un fenomeno di importazione. Perchè la globalizzazione si manifesta anche in franchising come questo: membri di gang nate nelle strade e nelle prigioni di Los Angeles vengono deportati nel loro paese, dove nuove e più organizzate cellule si sviluppano per arricchire un network sempre più fitto ed internazionale che si foraggia con traffico di droga ed immigrazione clandestina. Le deportazioni sono un modo in cui gli Usa rimbalzano al governo del Salvador gente che poi ci tornerà, magari dopo aver passato del tempo nelle prigioni-college della loro patria, dove imparano il mestiere prima di tornare in cerca di fortuna nelle strade della California o del Maryland. Sedotti dal sogno americano, che non è necessariamente una villetta con un garage a due posti, ma anche il rispetto delle strade e la forza di segni e colori. Le maras del Salvador sono forse l’esempio più evidente di come la povertà coniugata con un’immaginario globalizzato possa dare luogo a forme ed estetiche di violenza, facilmente utilizzabili da un governo corrotto come capro espiatorio per carenze locali. Poveda ci teneva a far vedere anche agli americani quello che succede lontano dalle loro strade, che hanno ispirato i nomi di gang i cui simboli fanno tremare. In particolare, è quasi ironico che la Dieciocho, la gang i cui membri il fotografo e documentarista ha intervistato nel suo film, sia nata a LA come 18th Street Gang da base prevalentemente messicana, mentre la sua rivale (la MS-13, o Mara Salvatrucha) ha un carattere più salvadoregno. Usando come pretesto colori e gesti creati in altri paesi, da gente con una cultura diversa (il simbolo della Mara Salvatrucha è ispirato alla musica metal), oggi quei giovani salvadoregni uccidono altri salvadoregni. Da una gang nata per difendere proprio la gioventù del Salvador, quella ospite sgradito del suolo americano, ad una faida intestina nel paese da cui quei gangster erano fuggiti.

Christian Poveda era un immigrato anche lui. Nato in Algeria da genitori spagnoli fuggiti al regime di Franco, era cresciuto a Parigi. Ha documentato guerre ed odio in tutto il mondo, ma guardando il suo film è evidente che non era sceso a compromessi, che non si era abbandonato al cinismo. Trasferitosi in Salvador per seguire la guerra civile è lì che, dopo anni di fatica per terminare il suo lavoro sulle gang, è stato ammazzato. È possibile che abbia detto troppo e che la stessa gente che lo aveva autorizzato a raccontarla abbia alla fine deciso di metterlo a tacere, oppure può essersi trattato di una gang rivale che non ha apprezzato la pubblicità. In ogni caso a Poveda sopravvive il suo film, che alla fine è arrivato a destinazione. Sperando che di esso colpisca più la vita che la morte.

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