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cultura dell'immagine e della parola

Tutti davanti
al Grande Sanremo

Missione compiuta Antonellona, missione compiuta. La bionda conduttrice può infine stappare lo spumante (e chi se ne frega se con le tagliatelle della nonna Pina non si sposa bene?), alzare il calice e brindare. Ha vinto, e con lei ha vinto ciò che era chiamata a rappresentare: la tivù di oggi, che con questa prova di forza ha dimostrato di aver ormai definitivamente sepolto la tivù di ieri e allo stesso tempo ha rassicurato tutti circa la propria capacità di resistere senza troppe difficoltà all’avanzata della tivù di domani. Un risultato abbastanza prevedibile, se vogliamo, in un paese dove la cultura del presente ha in buona parte calpestato quella del passato ma ci appare allo stesso tempo terrorizzata di fronte quella del futuro.

Un tempo (così raccontano i filmati d’epoca), Sanremo era “il dì di festa” della televisione italiana. Il momento in cui ci si vestiva bene, si sfoderavano i sorrisi più brillanti, si inondava il palco di fiori e si mostrava all’Europa quanto bella fosse l’Italia e quanto belli fossero i suoi abitanti. In questi giorni, al contrario, abbiamo assistito a un festival che non ha fatto altro che bearsi della propria cafonaggine e della propria insofferenza alle regole. Ognuno avrà le sue buone ragioni per fare quello che fa, per carità. Ma non è bello pensare che il nostro biglietto da visita in Eurovisione sia un concentrato di contestazioni e fischi: siano essi quelli del pubblico in sala contro l’accoppiata Pupo-Principe (oscena, ma questo già si sapeva), quelli dell’ampio elettorato del PDL contro Bersani, quelli di Costanzo contro il pubblico in sala o quelli dell’orchestra contro il televoto.

Scene imbarazzanti, eppure perfettamente in linea con lo spirito di un paese che ha da tempo smesso di “proporre” qualcosa, preferendo all’esercizio del cervello quello della pancia. L’importante è incazzarsi, l’importante è buttarla in caciara: dalla cabina elettorale al serale di Amici, passando per le code al semaforo e le infinite litigate che hanno reso il Grande Fratello una sorta di Uomini e donne 2.0, sappiamo che qui in Italia la linea di condotta che premia è questa. Evidentemente lo avevano ben chiaro in testa anche gli autori, bravi a innescare ogni sera – in un modo o in un altro – la polemica forzosa. E pazienza per chi, più o meno consapevolmente, si è prestato al gioco. In particolare per chi aveva tutto da perdere: il segretario del PD in primis, Marcello Lippi in secundis, tanto per fare due nomi.
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Un festival appiattito sul presente, si diceva. Svincolato dal suo passato ma allo stesso tempo resistente a tutto quello che non è “qui e ora”. Una celebrazione della televisione che è e che non può essere altrimenti. Una televisione che riconosce solo i propri figli, che incorona sul podio due cantanti provenienti dai principali talent show nazionali e un personaggio catodico al 100% come Emanuele Filiberto (che nel curriculum ha Quelli che il calcio, uno spot e Ballando con le stelle). Una televisione che ripropone ad libitum i propri tormentoni (vedi le succitate tagliatelle) e i propri schemi di funzionamento, ancorché guasti (vedi il televoto). Una televisione-coccodrillo: prima sopravvissuta alla scomparsa del dinosauro-servizio pubblico (quello che informava, educava e intratteneva), poi superata sul piano evolutivo dall’avvento della digitalizzazione e dallo spostamento del pubblico verso la Rete, ma sempre viva e in grado di divorare 12 milioni di persone in una notte. Una televisione capace di farci pensare che, culturalmente parlando, con tutta probabilità stiamo vivendo una delle peggiori stagioni possibili.

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