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Peter Jackson, tra alti e bassi

Peter Jackson, tra alti e bassi

Esercizi di stile di Marco Valsecchi ****

A volte l’impegno non basta. Altre volte, l’impegno in eccesso crea addirittura dei guasti. È il caso della nuova prova registica di Peter Jackson, tornato per l’occasione – a sette anni dalla conclusione della saga tolkeniana del Signore degli Anelli – a confrontarsi con l’adattamento cinematografico di un romanzo, nella fattispecie l’omonimo Amabili resti pubblicato nel 2002 dalla statunitense Alice Sebold. Gli elementi perché l’opera riuscisse bene, pare ci fossero tutti: una buonissima storia, un cast di qualità (da Mark Wahlberg a Susan Sarandon) e un regista abile nel creare mondi fittizi capaci di affascinare lo spettatore. Peccato che Peter abbia calcato troppo la mano, costruendo una pellicola sbilanciata e, in fin dei conti, deludente.

La storia, come è noto, è quella della tredicenne Susie Salmon, violentata e uccisa da un vicino di casa, che dall’aldilà segue la vita della sua famiglia e la ricerca da parte delle autorità del suo assassino. Da una parte abbiamo l’aspetto visionario, quindi, mentre dall’altra si viaggia tra il dramma e il thriller. Per quanto riguarda la tensione, questo va riconosciuto, a tratti il film funziona molto bene: abbastanza da incollarti alla poltrona o farti sudare freddo quando l’assassino incombe. Peccato che la stessa tensione venga gestita male e scarsamente finalizzata. Jackson infatti ce la elargisce a piene mani, spesso nei momenti sbagliati (vedi la lunghissima e infine spompatissima sequenza della cassaforte lanciata nella buca), salvo poi castrarla regolarmente mandandola ad annacquarsi nelle lunghe sequenze ultraterrene.

E qui si va a battere sul tasto dolente, cioè l’aspetto “immaginifico” del film. Detto in modo brutale: se perfino Terry Gilliam fatica a fare dei film “alla Terry Gilliam”, come diavolo è saltato in mente a Jackson di imbarcarsi in un progetto visivo che pare evidentemente non nelle sue corde? Quelle che vorrebbero essere scene visivamente ed emotivamente debordanti, si risolvono nel migliore dei casi in esercizi di stile degni di uno spot ad alto budget di Elio Fiorucci. Tra vestitini sgargianti, gigantesche navi in bottiglia e matte scivolate sulla neve, assistiamo a una rappresentazione dell’oltretomba che non può che apparire terrificante a chiunque non abbia Hello Kitty tatuata sul coccige. Una bella esperienza horror ai limiti del demenziale, per quanto mi riguarda. Ma ho il sospetto che Jackson cercasse di mostrarsi poetico e ispirato, o che quantomeno si stesse prendendo sul serio. Di fronte a cotanto kitsch, per me non può essere che pollice verso.

L’immaginifico intimismo jacksoniano di Valentina Vantellini ********

La voce di Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins, che si libra nel melodiosamente arcano e potente pezzo musicale intitolato Alice (1996), segna l’apoteosi del percorso di Susie nella straordinaria e archetipica Terra di Mezzo, rappresentazione laica di un limbo generato per osmosi dall’alternanza degli stati d’animo dei defunti e dall’amplificarsi dei loro ricordi terreni, intrecciati ai molti progetti incompiuti. L’emozione pura trasmessa dalla musica e la frammentarietà di un testo sincopato ben riassumono la sostanza e la forma di quest’ultima impresa jacksoniana, che interpreta il romanzo omonimo di Alice Sebold riuscendo a catturarne le atmosfere e il senso profondo: non un adattamento impersonale e calcolato della fonte letteraria, quindi (molte, infatti, sono le incongruenze e le ellissi narrative rispetto al testo originario), bensì un prodotto cinematografico personalissimo ed emozionante. Peter Jackson mantiene il registro intimista del libro e la narrazione a flashback e flashforward, simile a un “flusso di coscienza” esplicitato nel voice-over imperante di Susie, che scruta i suoi cari sulla terra da un punto di vista privilegiato. Il montaggio diventa un mezzo espressivo fondamentale e non esita a intramezzare con diversi frame neri gli episodi descritti, a mo’ di pausa tra un pensiero e l’altro nel Cielo di Susie, ma anche tra gli stadi emotivi del lutto nei componenti della famiglia Salmon. Ciascun mezzo utilizzato per dar vita a questo film concorre, con grazia, alla creazione di un’emozione, a un agitarsi dei sensi, a una tensione magica e inspiegabile. Così fanno le note della colonna sonora di Brian Eno e l’apporto del direttore della fotografia Andrew Lesnie, già noto per le atmosfere della saga dell’Anello e di King Kong.

Amabili resti è una pellicola che illustra, prima di tutto, la semplicità della vita di provincia e la ripercussione su di essa di una tragedia tremenda e indescrivibile; è la rappresentazione di una storia d’amore genuina e sincera, tra genitore e figlio, tra fratelli, tra amici. È, al contempo, un’esplorazione del terreno controverso dell’aldilà, dal punto di vista di chi lo vive. Non è dramma familiare, né lacrimosa o moralistica parabola, ma cinema intimista, sognante e per niente retorico che ricorda, nella parte terrena, un certo cinema indie ultimamente in voga, attento ai sentimenti snobbati, ma universali, della gente comune. Il suo approccio ai temi trattati è insomma innovativo, proprio come accade nel romanzo da cui è tratto. L’ apparato simbolico esibito nel lungometraggio è, oltre che una collezione di correlativi oggettivi dei ricordi di Susie, un compendio dei topói della poetica jacksoniana: dalla visionaria “terra di mezzo” di reminiscenza tolkieniana, agli spiriti materializzati di Sospesi nel tempo (1996), fino allo scrutarsi/inseguirsi degli sguardi tra il sig. Harvey e Jack Salmon da una finestra all’altra della casa per bambole, replicato dal conturbante Creature del cielo (e a sua volta preso a prestito dal primo King Kong). La fascinazione per il tema della morte e del labile confine che separa i vivi dai morti è, a detta dello stesso regista, di suo interesse da lungo tempo e, seppur in chiave non religiosa, il film suggerisce un legame profondo tra i due mondi: qualcosa, in fondo, in cui tutti, bene o male, crediamo. Jackson (e la Sebold prima di lui) riesce a esorcizzare la paura della morte, sia nel sopravvissuto che nel deceduto. La catarsi bipolare che deriva dalla difficile elaborazione del lutto da una parte e dall’accettazione della realtà e quindi della separazione definitiva dai sentimenti terreni dall’altra, riempie gli animi del pubblico di speranza nella vita dopo la morte (ed è un messaggio che diventa il senso ultimo della storia).

Inquadrare Amabili resti in un genere preciso o comunque impuro è davvero impossibile. A voler ben vedere, però, tutto il corollario dei sub-generi sfiorati – il thriller a sfondo psicologico/psicanalitico, il dramma familiare, la biografia e il fantasy – sfociano, ancora una volta, nel genre trasversale di formazione, in cui sempre ritorna la struttura del mitico viaggio dell’eroe di Vogler. Spiace solo per i molti errori di continuità e di contesto sparsi qua e là nel film; errori che, tuttavia scorrono non visti, bypassando il rischio di sminuire la portata del concetto di fondo. Anche il montaggio alternato, che alle scene di vita nella Pennsylvania degli Anni Settanta accosta l’esperienza sovrannaturale di Susie, soffre di una certa mancanza di continuità, di una certa asimmetria, che spiazza lo spettatore. Del resto, Peter Jackson ha sempre amato farci sognare e qui, come mai prima d’ora, la fantasia dello spettatore è chiamata a far suo il mondo stra-ordinario da lui ricreato. Chi adora lo stile del regista neozelandese – e chi non si limita a giudicarlo dall’imponente e pluripremiato adattamento di Il signore degli anelli – non ne rimarrà deluso. Di più: si sentirà sopraffatto da un inspiegabile senso di benessere e serenità.

Curiosità
Nel film figura in un cameo anche Peter Jackson: è l’uomo con la videocamera nel bazar in cui Mark Whalberg ritira l’ultimo rullino delle foto scattate da Susie.

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