Elaborazione del lutto dalla terra di mezzo
Molti hanno raccontato, in modo drammatico o retorico, le ripercussioni della perdita di un figlio su di un nucleo familiare. Pochi, però, hanno osato farlo, in modo sincero e informale, dal punto di vista del defunto. Alice Sebold l’ha fatto, con grazia e semplicità, nel suo romanzo d’esordio Amabili resti, salito in cima alle classifiche americane nel 2002, anno della sua pubblicazione. Per dovere di cronaca, gli “amabili resti” non sono le spoglie smembrate della quattordicenne Susie Salmon, ma la bella e metaforica “creatura” che ha preso forma sulla terra dall’intreccio delle relazioni umane realizzatesi successivamente al suo omicidio.
Acquistati i diritti sul libro, Peter Jackson lavora alla stesura della sceneggiatura insieme alla moglie Fran Walsh e alla collega Philippa Boyens, il solito team di professionisti che ha già trasposto romanzi cult in eccellenti prodotti cinematografici – vedi la pluripremiata trilogia del Signore degli anelli. La piccola e universale storia di una famiglia della Pennsylvania, ancorata ai sani principi di una volta (non ci sono né genitori divorziati, né figli sbandati) acquista consistenza visiva grazie a uno script scolpito con precisione maniacale. Rispettando lo stile della fonte, il bravo Peter Jackson riesce addirittura a tradurre in immagini quella sorta di stream of consciousness, caratteristico del racconto in prima persona di Susie, facendo ricorso a tutti i mezzi a sua disposizione: fotografia, montaggio, musica e Computer Graphics. Ne risulta un film dai toni indie nella rappresentazione di una realtà di provincia degli sgargianti Anni Settanta; un film quasi surrealista nella ricreazione di un “Cielo” laico, che sgorga dalla mente e dai ricordi della ragazzina uccisa; un thriller accennato, che lega insieme le vicende terrene a quelle celesti; una coming-of-age story che, tra archetipi, riti di iniziazione ed elaborazioni del lutto, illustra un cammino di conoscenza e di catarsi. Jackson replica l’assenza di linearità della trama del testo originario (che, per una serie di scelte stilistiche, potremmo definire “modernista”) giustapponendo frammenti di vita vissuta a scorci di paradiso e raffigurando vertiginosi e allucinati incontri tra i due mondi.
Il magnifico trio neozelandese studia minuziosamente la fonte letteraria e la purga degli elementi di secondo piano, proprio come un cercatore d’oro che setaccia il fiume alla ricerca delle sue preziosità nascoste. E così acquista voce l’indimenticabile incipit del libro: «Mi chiamavo Salmon, come il pesce. Nome di battesimo: Susie». O si concretizza il prologo, nella scena in cui Jack Salmon scuote la cupoletta di vetro in cui è chiuso – nel suo «mondo perfetto» e innevato – un simpatico pinguino. Le barchette imbottigliate, hobby del padre, diventano una metafora dello sconquassamento della vita della famiglia Salmon, quando s’infrangono rovinosamente contro gli scogli nel Cielo di Susie. Il gazebo dove Susie e Ray si erano dati il primo, abortito appuntamento, diventa il luogo privilegiato di osservazione delle vicende terrestri, un luogo che simboleggia il legame con la vita di sempre e dell’amore troncato. Il signor Harvey che chiude le tende allo squillo della sveglia; Susie che viene inghiottita dal campo di grano, che diventa palude e le impedisce di arrivare al gazebo… Chi ha amato il romanzo, amerà anche il film, perché lo farà sognare e rivivere i ricordi di Susie come fossero i propri.
È pur vero che i tre sceneggiatori si prendono anche molte licenze poetiche, tagliando qua e là il romanzo e aggiustando la trama di conseguenza. Ciò che conta è che riescono a far proprio un progetto altrui, colorandolo e animandolo di personaggi con le proprie idiosincrasie, gente comune interpretata da attori eccellenti che sanno annullarsi nei personaggi per rivivere, passo dopo passo, le loro vicissitudini emotive. Delle pecche, siamo onesti, ci sono, poiché alcuni personaggi del romanzo stentano a guadagnarsi una posizione di rilievo nel film. [img4]Tuttavia, mentre la scelta registica di alleggerire la funzione narrativa della madre convince, la decisione di accennare appena la stravaganza psicologica e comportamentale della compagna di scuola di Susie non soddisfa affatto, vista l’importanza che essa riveste nella storia. Jackson & Co. danno, infatti, priorità drammaturgica al rapporto figlia/padre, figlia/”fidanzatino” e figlia/assassino, col rischio di cadere nell’abisso della psicanalisi. Ma è forse possibile rendere totalmente giustizia ad un libro? No di certo, ma non è questo che importa. La metamorfosi della parola in immagine, la traduzione del pensiero e dell’emozione in suoni e colori è una cosa che all’eclettico e visionario Peter Jackson riesce. E riesce bene.
Amabili resti, romanzo di Alice Sebold, 2002
Amabili resti, regia di Peter Jackson, 2009
A cura di Valentina Vantellini
la sottile linea rossa ::