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cultura dell'immagine e della parola

Intervista a
Jessica Hausner

La regista di Lourdes, uno dei film più apprezzati all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, ci presenta la sua ultima opera.

Com’è nata l’idea del film e perché Lourdes?

Prima di tutto mi è venuta l’idea di girare un film su un miracolo. Il miracolo rappresenta un paradosso, un’incrinatura nella logica che ci guida verso la morte. L’attesa del miracolo è in un certo senso la speranza che alla fine tutto vada per il meglio e che ci sia qualcuno che veglia su di noi. Durante le mie ricerche sui miracoli mi sono soffermata sul fenomeno particolare di Lourdes, luogo in cui i miracoli avvengono regolarmente. Ho scelto quel luogo per ambientare il mio film perché volevo evidenziare il fatto che i pellegrini ci vanno con la speranza di vivere un miracolo. In fondo, è questa la suspense della storia.


Qual’è stata la reazione degli attori in questo universo molto cattolico?

Alcune attrici si sono rifiutate di recitare la parte di una donna paralizzata, ritenendo che quel ruolo, non abbastanza sexy, avrebbe potuto nuocere alla loro carriera. Altre hanno messo in discussione il contenuto cattolico del film. Ho spiegato che, sebbene sia ambientato a Lourdes, il film non vuole essere un film cattolico. Mi servo di Lourdes per raccontare una storia più generale.

Come è stato lavorare con Sylvie Testud per preparare il suo ruolo?

Con Sylvie Testud c’è stata una lunga fase di preparazione. Abbiamo visitato diversi centri ospedalieri per conoscere i malati e ogni visita ci ha aiutate a capire meglio la malattia. Da un lato ci sono le preoccupazioni personali, familiari e sociali e, dall’altro, l’esperienza fisica di vivere inchiodati a una sedia a rotelle. Abbiamo anche lavorato con una fisioterapista per imparare come camminare alla fine del film. Per noi è stato estremamente interessante penetrare emotivamente in una situazione fatale, quella dell’handicap, e scoprirvi una specie di normalità e un benessere inattesi. Giorno dopo giorno la vita continua, così com’è.

Il suo film quindi va al di là di Lourdes e del cattolicesimo. Quale forma di fede vuole mettere in discussione?

Il film si interroga sul modo in cui possiamo dare un senso alla vita attraverso le nostre azioni. Di fronte a quest’idea c’è la paura che il mondo sia cupo e freddo, privo di un senso profondo, che si nasca per caso, che si muoia allo stesso modo e che nulla di ciò che facciamo durante la vita conti qualcosa. La verità è difficile da trovare, la nostra vita è al tempo stesso meravigliosa e banale. Il film si pone in una prospettiva più filosofica che religiosa, solleva un interrogativo generale. Tuttavia, a me interessa l’emozione che accompagna il sentimento religioso. [img4]Avere fede significa credere che esista qualcosa che non si può spiegare e che supera i limiti della comprensione. I credenti lo chiamano dio. La fede consente di accettare che i miracoli possano accadere, è questa l’essenza della fede. Nel mio film il miracolo esiste: accade qualcosa di miracoloso, che però in seguito diventa abbastanza banale. Allora ci si rende conto che questo miracolo non racchiude necessariamente una morale o un senso… che forse è soltanto un caso. È solo una tappa, poiché nulla è scontato. Lourdes non è il racconto di una guarigione, ma piuttosto una scatola cinese, in cui le scatole si aprono una dopo l’altra senza mai arrivare al centro.

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