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Le nuove vie del dolore in Tv

Domenica all’ora di pranzo, gli ultimi bocconi di tortilla, mezza birra ancora nella bottiglia. Sono solo, il televisore è acceso, comincia Domenica Cinque . Parte la sigla: “Voglio vivere così, col sole in fronte…”, la gente in studio balla, la D’Urso ci saluta e introduce la scaletta del contenitore. Il primo blocco è dedicato alla tragedia. La settimana scorsa c’erano da commentare i terremotati di Haiti, questa volta si parla delle due bambine morte sotto le macerie di una casa in provincia di Agrigento. I genitori delle piccole sono in collegamento: sono poveri, non hanno un’istruzione e sono schiantati dal dolore. La D’Urso ne approfitta per elogiare “le persone semplici” e chiedere loro se hanno già detto al figlio di undici anni che le sue sorelline non ci sono più. A commentare l’evento, un parterre di opinionisti da talk-show, capitanato da Vittorio Sgarbi, che sta seduto su un seggiolone da arbitro di tennis alto almeno un paio di metri. Un elemento crudelmente ridicolo che già da solo mi spingerebbe a cambiare canale.

Invece no, invece decido di sorbirmi la scena fino in fondo. Mi è venuto in mente che più di quattro anni fa, proprio qui, mi sono occupato di dolore televisivo. Forse vale la pena di aggiornare le riflessioni di allora. Un breve riassunto chi non avesse voglia di leggersi l’articolo del 2005: a fronte di una impennata lacrimevole nel linguaggio del reality show, facevo notare che il passaggio di certe tematiche dall’ambito della cronaca a quello dell’entertainment rischiava di ingenerare una certa desensibilizzazione nel pubblico televisivo, spinto dallo stesso linguaggio del teleschermo a mettere sul medesimo piano le vere tragedie raccontate nei programmi d’attualità (dai tg a Chi l’ha visto?) con le pseudo-tragedie di talk e reality dove la disperazione è d’obbligo (da C’è posta per te a La talpa).

Non avevo tutti i torti. L’irruzione del dolore all’interno dei programmi “leggeri” ha superato le ultime barriere, passando da una questione di linguaggio a una di contenuto. Se prima si parlava di questioni tutto sommato quotidiane vestendole da tragedia, arrivando al massimo all’intervista cauta al cosiddetto “caso umano”, ora è l’autentica tragedia la protagonista – quantomeno per un blocco o due, fino alla prossima pubblicità – dei nostri programmi d’intrattenimento. Quello che più colpisce, in questo passaggio, è che, man mano che i drammi introdotti nel “varietà” si sono fatti più pesanti, le differenze di approccio che li separavano dai temi “soft” si sono fatte progressivamente più labili, fino ad arrivare a Sgarbi che parla di bambine morte e popolazioni terremotate dall’alto di un ridicolo seggiolone. Di contro, il pubblico televisivo sembra porsi sempre meno problemi a riguardo: passare da questi argomenti all’intervista ai protagonisti del Grande Fratello non è più un tabù.

Proprio il GF, tra l’altro, ci dice molto sulla perdita della capacità “empatica” del popolo televisivo italiano. Rispetto alle premesse che hanno generato il format, la situazione si è ribaltata: laddove il concept doveva essere “concorrenti scelti tra le persone normali chiusi in un appartamento e osservati da dei teledipendenti”, ora si assiste a un programma riassumibile nella formula “concorrenti teledipendenti osservati da persone normali”. È evidente che non c’è personaggio del programma di Canale 5 che non sia perfettamente conscio di tutti i meccanismi che regolano il funzionamento e la fruizione del programma. Da questo punto di vista, volendo capire come ragiona il vero telespettatore, è più utile osservare i “ragazzi” che non rivolgersi all’Auditel. E i “ragazzi” che cosa ci mostrano? Ore e ore di lacrime strazianti sfoggiate in ogni occasione, chiaro indice di una perdita totale di quello che dovrebbe essere il “senso del dolore”.

[img4]Dopo aver preso un paio di pastiglie per il mal di stomaco, possiamo dunque ragionare sugli sviluppi futuri di questi trend. Partiamo dal fatto che il dramma è ormai un genere televisivo tout-cour. Il vero trionfo della desensibilizzazione, a questo punto, sarebbe una sua inclusione nelle strategie di palinsesto delle nuove piattaforme digitali, magari con l’avvento di un canale all-tragedy. Uno scenario paradossale, eppure plausibile. A renderlo poco realizzabile, però, non è tanto la pruderie del pubblico, come abbiamo dimostrato, quanto una questione di ordine prettamente sociologico. Chiediamoci: perché il dolore in Tv funziona? Perché il dolore altrui produce in noi una catarsi, mi viene da dire. Ma questa catarsi è tanto più forte quanto più giunge improvvisa, in forma di shock. Per questo, parlando di grandi numeri, il dramma funziona meglio se accostato all’intrattenimento – quasi a suggerire un senso di colpa che deve essere espiato – che non in sé e per sé. Detto in estrema sintesi: l’anestetico etico che ci siamo lasciati somministrare ha funzionato talmente bene che ora riusciamo a comprendere la portata di una tragedia solo se ci viene proposta in opposizione al Paese dei Balocchi dove viviamo normalmente. E questo e quel poco di umano che, in qualità di telespettatori, ci rimane.

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