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cultura dell'immagine e della parola

Green! Agire per un mondo sostenibile

C’era una volta l’Azienda, intesa come madre benefattrice, fonte di sostegno e dispensatrice di verità. L’Azienda dava il pane, e come tale era benaccetta. L’Azienda non mentiva, produceva qualità e meritava il rispetto di tutti, degli impiegati ed operai e di chi -sfortunati loro- lavoravano altrove. Che cosa è successo? I mercati hanno cominciato a scricchiolare, le borse a impazzire e il costo della vita a sforbiciare lontano, quanto lontano!, dalle buste paga. Poi, i crack. E mai parola fu onomatopea tanto azzeccata. A seguire, un continuo interrogarsi mediatico sulle colpe e sui bond, sul debito e su quella carte che –swooosh!- cumulano rossi in un battibaleno.

Che cosa ne resta dell’Azienda operosa, fonte di benessere e sicurezza? L’Azienda è diventata l’azienda, una “a” minuscola, una variabile di un sistema economico che ha dimostrato troppo spesso di essere alla deriva. L’azienda con la “a” minuscola ha cominciato ad essere guardata con sospetto ed è dovuta ricorrere alle “pierre”, moderni stregoni di una Diagon valley fatta di palazzinari e banchieri creativi. Le parole ed i concetti di “immagine” e “reputazione” sono diventati le ricette di nuove pozioni che hanno avuto il compito di incantare i pubblici. Gli ingredienti hanno fallito spesso: il consumatore del millennio non è più “lo sprovveduto”, “l’incauto” o “l’ingenuo”. Ruoli da commedia dell’arte in uno scenario come quello attuale, dove i consumatori si sono fatti avveduti e informati. Accade quindi che l’azienda (“a” minuscola) per tornare ad essere l’Azienda (“A” maiuscola) debba acquisire una sorta di “diritto di cittadinanza” e guadagnare honoris causa le chiavi di accesso della comunità. Non si tratta di azioni simboliche: i nuovi consumatori sono giudici severi, che vogliono fatti e non parole, che sanno reagire grazie ad internet e multimedia. La risposta aziendale è la Rsi, responsabilità sociale dell’impresa: non l’ennesimo team di imbonitori, ma un nuovo dipartimento che investe alle voci “etiche” della partecipazione sociale, a lanci o collaborazioni dell’azienda in progetti di forte interesse sociale. Gli ambiti di investimento sono i più svariati, perché il bisogno non ha un singolo nome e non ha mai fine: associazioni di malati, fondazioni per la ricerca, raccolte fondi per i senzatetto, gli istituti per i ragazzi di strada, le vittime della droga, le donne abusate, le comunità in difficoltà in Africa o gli sfollati in Medio Oriente.

Negli ultimi tempi, un tema emerge in modo pressante: l’ambiente. Una carta in un mazzo di numerose necessità, ma un argomento che, per globalità e portata d’interesse, coinvolge tutto il mondo. Cerimoniere del dibattito internazionale, Al Gore, che a partire dal suo documentario, The inconvenient truth, ha traghettato il dibattito sul clima dagli eccentrici ambienti neo hippy alla coscienza popolare. Le reazioni delle corporation al tam-tam internazionale sono riconducibili a poche tipologie:
• ignoro il problema, perché il problema non esiste, e continuo ad andare avanti così come sto facendo, sperando che non mi “becchino”;
• il problema c’è, ma è molto minore di quanto vogliano farci credere, per guadagnare il favore dei media farò qualche azione dimostrativa in favore dell’ambiente… beninteso senza intaccare i bilanci;
• il problema esiste ed è urgente, devo agire facendo la mia parte, e non perché me lo dettano le pierre, ma perché è un mio dovere, etico e morale.
Va da sé che l’urgenza sociale del problema del clima ha raccolto adesioni proporzionali ai tre atteggiamenti sopra descritti: sebbene la tematica sia avvertita con maggiore coscienza, il numero di aziende aderenti ai progetti green è ancora e purtroppo minimo. A livello sociale, l’attenzione all’ambiente è in grande parte un problema di cultura: la mentalità occidentale non si fonda sui quei criteri di rispetto e amore per la natura che, ad esempio, è base condivisa in Giappone. Non è un caso che sia stato proprio il Giappone ad avviare un forte riflessione del G8 sull’argomento, partendo da Kyoto e passando attraverso una seria razionalizzazione degli sprechi e di promozione di progetti biocompatibili.

Che ne è dell’Italia? La mia percezione è che siamo indietro, ancorati a posizioni scettiche e scarsamente disposti ad investire in modo importante su misure correttive. Manca del tutto il criterio guida, introdotto da J. Grant nel bel libro “Green Marketing. Il Manifesto.”, per cui la sostenibilità deve essere un principio guida e non una proposta. Essere sostenibili appare ancora un titolo di cui potersi fregiare e non una normale tappa dell’attività aziendale alla stregua della distribuzione dei dividendi o della consegna delle buste paga ai dipendenti. La mia sensazione è che c’è ancora molta strada da fare, tuttavia non posso non sottolineare un aumento delle voci sull’ argomento. Alle volte confuse, altre volte allarmiste, dai toni rabbonitori o invece molto informate, le voci verdi contribuiscono ad alimentare il dibattito e, come tali, sono positive. Sotto il profilo dell’azione e comunicazione aziendale, le aziende che hanno attuato una scelta di coscienza e non di opportunismo hanno investito in progetti importanti dei quali oggi possono comunicare esiti e prospettive. E’ solo dalla promozione di un progetto realmente green –e non verde solo a livello di immagine, green-washed come dice Grant nel suo libro- che le aziende possono conquistare quel diritto di cittadinanza che il cittadino di oggi impone. Non ci si aspetta che le aziende non ne traggano beneficio economico: sarebbe anacronistico credere che le aziende non debbano fare pubblicità su quanto di verde hanno costruito. Sono a favore: il progetto green deve essere comunicato perché non è green-washed, perché dà risultati e non solo risultati di immagine, perché può istruire e può accompagnare il pubblico dentro a tematiche che prima non conosceva, perché può informare e costruire un pezzo di più di quella coscienza sostenibile che è ancora carente.

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