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Food, Love and Music

Food, Love and Music

Ridere, in certi tempi, è cosa difficile. Bisogna avere una buona dose di pelo sullo stomaco. Far ridere è impresa difficilissima. Ancor più difficile, forse, è far ridere, bene, lo spettatore di un film. Soul Kitchen, del regista turco/tedesco Fatih Akin, è un film che fa ridere, tanto e bene, lo spettatore. Per diversi motivi. Intanto è un film molto contemporaneo, in quanto racconta la storia di un uomo (Zinos, cuoco di origine greca, che vive ad Amburgo, sulla trentina) che prova a ricollocarsi (nel lavoro, nei sentimenti) e a rinascere all’interno della società dei fallimenti (due su tutti: il suo ristorante, il ‘Soul Kitchen’, va a rotoli e la sua ragazza, Nadine, va in Cina a lavorare) e dei falliti (uno su tutti: il fratello, Illias, è un galeotto).

Poi è un film che mescola con sagacia gag visive e verbali a un sound che rinfresca l’animo di ciascuno, mixando brani strumentali funky di Kool & The Gang, Quincy Jones o Mongo Santamaría alle classiche tracce R&B di Sam Cooke e Ruth. Ma non c’è solo la musica soul. La colonna sonora è un frullato di hip-hop e sound elettronico di Amburgo, musica rock dal vivo, rebetiko greco e La Paloma. Non basta? Bene. Allora è significativo che Soul Kitchen sia pure una commedia romantica, che sfiora il musical un po’ come fece Woody Allen con Manhattan, mentre si faceva accompagnare dalle note di George Gershwin per scandire i sentimenti dei suoi personaggi. Qui, a differenza di lì, è tutto un po’ più dirompente e, trattandosi di Amburgo, e in particolare nel quartiere di Wilhelmsburg, che è attualmente al centro dello sviluppo urbano della metropoli tedesca, e trattandosi di un heimat film, non poteva mancare una canzone di Hans Albers, uno dei più grandi e popolari attori-cantanti tedeschi degli anni Trenta e Quaranta.
Una commedia romantica, quindi, una di quelle che non si vedevano da tempo, nella quale le relazioni si sfasciano, si creano, si risfasciano e trovano, finalmente, una loro (insolita) collocazione nell’universo variegato dell’amore e delle stranezze della vita. Perché questo è proprio un film insolito, che non ti aspetti ma che un po’ speri, prima o poi, di incontrare per strada. Insolito perché firmato da Fatih Akin, uno che, fin dai suo esordi (il primo lungometraggio è Kurz und schmerzlos, 1998 – inedito in Italia sebbene vincitore del Pardo di bronzo a Locarno e del premio come migliore esordiente ai Bavarian Awards di Monaco) ha sempre dimostrato di saper dosare con saggezza, dramma e melodramma, tragedia e commedia, pur affrontando questioni tanto scomode quanto attuali come l’emigrazione, la diversità culturale, la famiglia, il lavoro, la fede, la musica. L’immigrato e, quindi, lo straniero, sono al centro del suo cinema che, nonostante una forte connotazione autobiografica, riesce ad affascinare, a stupire, a far riflettere e divertire universalmente.

Un cinema periferico che indaga la vita periferica dell’uomo, le conseguenze delle sue scelte e la necessità della libertà. Soul Kitchen prosegue questo interessante percorso, estendendo il significato di precarietà, perché al centro di questo film si trovano uomini e donne che vivono nel precariato del lavoro, dei sentimenti, delle relazioni (in questa direzione sarebbe interessante avvicinare il film a Non pensarci di Zanasi). La risposta di Soul Kitchen è forse proprio quella ricetta che rende il ‘Soul Kitchen’ di Zinos un luogo unico, un po’ surreale, fatto di incontri, musica e sane risate. Un luogo buono per diventare persone migliori e uscire dal senso di disagio creato dall’effimero.
Perché alla base della felicità, dentro una battuta riuscita e anche dentro un film divertente come questo (costruito sul senso della svendita dei valori) si trova la qualità. Più che del cibo, soprattutto della vita.

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