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La messa è sfinita

La messa è sfinita

Carlo Verdone aggiunge un nuovo tassello a quella galleria di sacerdoti in crisi vocazionale, ed esistenziale, che il cinema italiano ha proposto negli ultimi decenni. Dall’indimenticabile Moretti di La messa è finita (Nanni Moretti, 1985), alla sofferta Margherita Buy di Fuori dal mondo (Giuseppe Piccioni, 1999). Personaggi problematici che si interrogano sul loro ruolo nella società moderna, in bilico tra le tentazioni della vita consumistica e materialista e il proprio credo. Tra un mondo dogmatico e austero, fuori dal tempo e incapace di capire e stare al passo con la società contemporanea, e la propria spiritualità interiore.

Il ritratto che Verdone fa del proprio personaggio è delicato, sincero. Non sfigura rispetto agli illustri precedenti. Anche per il lavoro, un po’ da Actor’s Studio, di raccolta di contributi di amici sacerdoti del regista/attore romano, da lui definiti “ben distanti da una vecchia impostazione clericale”. Un prete in crisi vocazionale, incapace di comprendere il mondo moderno, abituato alla sua missione in Africa, che rappresenta per lui una comoda fuga dal reale. Una persona abituata ai gravi problemi di persone che vivono ai limiti della sussistenza, che si trova incapace di gestire le diatribe della sua agiata famiglia. Al polo opposto c’è Lara, una personalità solare, vitale, spensierata nonostante i problemi che la vita le mette davanti. La sua visione morale è diversa da quella, all’antica, di Carlo: non costruisce, per lei, un problema spogliarsi di fronte a una webcam per racimolare i soldi necessari per il figlio. L’incontro/scontro tra i due protagonisti è la collisione di due mondi agli antipodi, di due concezioni appartenenti a due diverse epoche. Da questo impatto i due personaggi usciranno cambiati e questo rappresenta la scommessa riuscita del film.

A non funzionare sono invece “loro”, i personaggi comprimari, che non si elevano dallo status di banale macchietta. Vista la presenza di bravi interpreti, come Anna Bonaiuto e Angela Finocchiaro, era lecito aspettarsi di più. L’ambizione di voler fare una “comedy of manners” annega nei clichè triti e ritriti: l’agente di borsa cocainomane, la psicologa depressa, le ragazze che rincorrono le mode più becere, le immigrate africane che battono sui marciapiedi. Tutto sembra risolversi nella semplice contrapposizione manichea tra il mondo povero, ma semplice, del villaggio africano e quello opulento, ma decadente, della società moderna. Una dicotomia che si risolve nel consolatorio finale: si possono salvare capra e cavoli con una semplice webcam, strumento emblema del progresso, che permette di tenere i contatti con i familiari, stando comodamente da un’altra parte del globo, alla debita distanza per non essere travolti dai loro deliri. Verdone non è un Monicelli o un Risi e non è in grado di fare un ritratto della società attuale, o forse, semplicemente, non riesce, per motivi anagrafici, a comprenderla.

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